lunedì 10 ottobre 2016

L'ISOLA DELLE FARFALLE D'ORO

A questa favola sono legato perché esprime tutto l'amore che provo per i miei nipoti, non a caso l'ho dedicata a loro. Leggendo la premessa verrà probabilmente fuori anche il mio sempre vivo "senso paterno", nonché la mia passione per il lavoro di allenatore/educatore. Finché esistono i bambini e qualche adulto dal cuore puro, c'è ancora speranza per l'umanità. Questo il succo della storia. Oltre alla premessa allego il primo capitolo; se vi interessa vi mando il libro completo in formato word o pdf. Buona lettura. 
Purtroppo, per vari motivi, L'isola delle farfalle d'oro è stato il libro con la tiratura più limitata. I pochi ad averlo posseggono infatti una reliquia che quando sarò santo varrà tutto l'oro dell'isola...




A Giulia e Riccardo



PREMESSA


Oggi compio gli anni. Un’età importante. Di solito alla mia età si è già raggiunto un qualche traguardo o comunque si è sulla buona strada per raggiungerlo. Io invece sono ancora qui nei panni di un immaginario Peter Pan a giocare all’artista. E un artista, si sa, che lo faccia per gioco o lo sia per davvero, non dovrebbe mai omologarsi agli standard imposti, altrimenti si prosciugherebbe nella normalità. Egli custodisce gelosamente la propria diversità e non perde occasione di fare sfoggio della sua “licenza poetica”, che non è altro che la capacità innata, e affinata con l’esperienza, di vivere la vita seguendo i suggerimenti  della fantasia (e del cuore). Un artista inoltre ha l’obbligo, se vuole essere artista totale, di essere narcisista e presuntuoso: se uno scrittore, un pittore, un poeta, un attore, un musicista, uno scultore vi dice il contrario, diffidate immediatamente della sua arte e soprattutto della sua persona. Io sono innegabilmente narcisista e presuntuoso quel tanto che basta, altrimenti non avrei scritto e non sarei qui a presentarvi questa favola.
   Una favola? Questa è bella, penserà qualcuno che mi conosce “per sentito dire” o per aver letto i miei libri e racconti precedenti. L’uomo (e l’autore) che ha fatto della provocazione, della misantropia, dell’antireligiosità e dell’immoralità i propri cavalli di battaglia, come può scrivere una favola? E' come se Linus ripudiasse la sua coperta. Il discorso si fa lungo e complicato e non credo abbiate voglia di sorbirvi le mie incursioni nella filosofia manservisiana, però posso dirvi che ho scritto una favola per un motivo fondamentale: adoro i bambini e credo in loro quali unica salvezza per l’umanità. Ho la presunzione (ah beata presunzione!) di poter insegnare cose importanti per la loro crescita; d’altronde è anche per questo che faccio l’allenatore di calcio di “pulcini”, per trasmettere a questi futuri uomini il rispetto, la lealtà, la tolleranza, la sincerità, l’altruismo, la bontà; e stimolare di conseguenza la loro intelligenza, fino a risvegliare quella creatività che ognuno di noi, chi più chi meno, ha dentro. Tutte qualità queste che si trasmettono con l’imprinting dei primi anni di vita. Ovvio che un allenatore, un maestro, un animatore o un qualsiasi educatore possono fare ben poco se alla base c’è una famiglia “negativa”, comunque non bisogna arrendersi, altrimenti non ci sarebbe alternativa all’ignoranza. E quando c’è solo ignoranza è la FINE.
   Dicevo che adoro i bambini. In particolare adoro i miei nipoti. Infatti a Giulia e Riccardo dedico questo libro. Giulia è la primogenita di mia sorella Giorgia. Mentre scrivo ha quasi quattro anni, è vispa e intelligente, come prevedevo che sarebbe diventata (anche se la previsione era a più lungo termine) scrivendole questa lettera per il suo primo compleanno:


Carissima Giulia,
                               
questo regalo sotto forma di parole scritte lo potrai apprezzare in pieno solo tra molti anni, quando – lo so con certezza – sarai una ragazza intelligente, sveglia e arguta.
Oggi è il giorno del tuo primo compleanno. Pensa, un anno fa, mentre una parte della terra era sconvolta dallo tsunami, vedevi per la prima volta la luce di questo mondo sclerotico, rivelandoti ben presto anche tu un piccolo tsunami. C’era la luna piena il 26 dicembre 2004, segno premonitore del tuo arrivo e specchio del tuo caratterino, che fino ad oggi si sta dimostrando luminoso e vispo.
Esattamente un anno fa, ricordo che ero in camera mia a leggere un libro quando ad un certo punto la nonna Paola, dal bagno, disse al nonno che era in sala: “Rubens, si sono rotte le acque!”
“Vado a chiamare l’idraulico” rispose il nonno.
“Ma no, cus et capé! La Giorgia! Bisogna portarla all’ospedale, sta per partorire!”
Così andasti con mamma, papà e nonna all’ospedale di Bentivoglio, dove nascesti poche ore dopo. Da quel giorno, per me come per i tuoi genitori e i nonni, non esiste giornata triste. Grazie a te, ogni giorno splende il sole, anche se fuori diluvia.
Cosa posso augurarti per il tuo futuro? Innanzi tutto tanta serenità. E’ fondamentale per vivere bene questa vita, visto che ti verrà minacciata (la serenità) da più parti. Voglio darti alcuni consigli dall’alto o dal basso dei miei anni. Ascolta sempre il tuo cuore. Non dar retta a chi ti racconta favole solo per farti il lavaggio del cervello. Sii mentalmente indipendente. Sii curiosa e leggi tanto, che solo così potrai darti risposte e, cosa ancor più importante, porti sempre nuove domande. Cerca di vivere intensamente, come se ogni giorno dovesse essere l’ultimo. Conquista il tuo spazio di libertà e difendilo strenuamente dall’ignoranza, dall’omologazione, dalla stupidità, dall’intolleranza, dalla superficialità di questa società. Rispetta chi ti vuole bene perché, ricorda!, ci sono persone che darebbero la loro vita senza pensarci un secondo per la tua felicità. Semina amore, raccoglierai gioia. Stai molto attenta mia amatissima Giulia: crescerai in una giungla, metaforicamente parlando. Stai lontana dalla massa, perché la massa ti tiene ancorata al fondo. Cercheranno di renderti uguale alla maggioranza delle persone, ma tu non cascare nella grande trappola della mediocrità. Vola! Vola con la fantasia e l’intelligenza che sono sicuro non ti mancheranno. Ti auguro di cuore di diventare una donna unica e speciale, che si distingua per la particolarità del suo cervello e la luminosità della sua anima.

Con infinito Amore,
Zio Simone


   Riccardo invece è la new entry. Nato con un mese d’anticipo più di un mese fa, è l’altro topino di casa, un frugoletto che già amo con tutto me stesso. Mia sorella lo desiderava con tutta la forza che solo uno spiccato senso materno può avere. Ha tribolato parecchio prima che arrivasse, rischiando persino la vita con una gravidanza extrauterina. Forse non ci sperava più. E’ stato lì che per la prima volta nella mia vita ho pregato un qualunque dio o simil dio mi potesse ascoltare se fosse stato in ufficio. Gli ho detto: “Dio o come ti chiami o qualsiasi cosa sei, se fai in modo che mia sorella abbia questa gioia puoi prenderti in cambio la mia vita se necessario. La baratto più che volentieri per la sua felicità!”
   Che abbia o meno fatto in modo di sbrigare la mia pratica, poco dopo la richiesta Giorgia è rimasta incinta e quando è nato Riccardo la mia gioia è arrivata alle stelle; se quella sera aveste guardato il cielo avreste notato una luminosità particolare.
   “Ora posso morire sereno” mi sono detto. Però,  visto che vivere non mi dispiace affatto nonostante questo sia un mondo marcio, prima dell’eventuale dipartita da pagare come debito per il grande dono ricevuto, mi mancherebbero ancora due “opere” da realizzare: innanzi tutto devo vedere questa favola pubblicata. Secondo ma non meno importante, piacerebbe anche a me avere un figlio un giorno.
   E’ buffo come io che ho da sempre come più grande sogno realizzare una famiglia allargata, di quelle che un giorno ti ritrovi vecchio (il vecchio Simone, con una lunga coda di capelli bianchi e un’altrettanto lunga barba) con quattro o cinque figli e una decina di nipoti… E’ buffo che tutto il resto di me che non sia questo desiderio mi porti invece nella direzione opposta, e cioè rimanere un uomo solo. Avrò mai dei figli anch’io? Il mio essere egoartista, ovvero essere Simone Manservisi non sembra compatibile con questo grande anelito che mi porto dentro dalla prima adolescenza. Vedremo. Chissà. Magari il Grande Capo accoglierà anche questa mia richiesta. Finché c’è vita…
   Tornando alla “prima cosa da fare” e cioè pubblicare la favola: se la state leggendo significa che sono riuscito a pubblicare il libro. D’altra parte non ho dubbi; pensare che questa storia è il mio modo di dire a Giulia e Riccardo (e ai miei figli immaginari o un dì reali) che gli voglio un bene dell’anima e che questa dichiarazione d’amore rimarrà anche quando non ci sarò più, mi spinge con serenità a pubblicarla a qualunque costo. Pensare inoltre che tra queste pagine si possono incontrare tante piccole farfalle dorate pronte a trasferirsi nei cuori e nelle menti dei bambini (e degli adulti) che le leggono, mi dà un ulteriore stimolo a pubblicare. Questa favola non è una di quelle favole che ti vengono raccontate sin da piccolo da adulti, preti, politici, tv, giornali, ecc. per farti il lavaggio del cervello (come ho scritto nella lettera per Giulia) e tenerti ancorato al fondo; questa favola è per chi vuole fuggire da questo brutto mondo, e sa che è possibile farlo non solo con le ali della fantasia.
   Non mi resta che augurarvi BUONA LETTURA, BUON DIVERTIMENTO E BUONA VITA.

10 novembre 2008


1


Sedevano su una panchina fuori dal centro commerciale…




Sedevano su una panchina fuori dal centro commerciale, dove zio Simone aveva portato Giulia e Riccardo per farli giocare un po’ sulle giostre all’entrata del supermercato interno dopo avergli fatto scegliere i regali per il Natale imminente. Giulia aveva scelto la bambola di Bloom, una delle Winx, le fatine che spopolavano da qualche tempo tra i bambini della sua età, mentre Riccardo, più piccolino, era rimasto incantato da una semplice palla colorata e aveva optato per quella. Dopo numerosi giri sul cammello, il trenino e lo scooter meccanici, Giulia ne aveva avuto abbastanza e aveva pronunciato le paroline magiche che ogni bimbo conosce e alle quali nessun adulto può resistere se non pochi minuti: “Zio, ANDIAMO A CASA!”
   Erano usciti dall’imponente struttura rettangolare del centro commerciale e zio Simone si era seduto su una panchina in cemento rosa per allacciarsi una scarpa; Giulia e Riccardo lo avevano imitato per riposarsi. La giornata era soleggiata e particolarmente calda nonostante l’autunno stesse per lasciare posto all’inverno.
   “Se volete, intanto che ci riposiamo un po’, potete mangiare l’ovetto Kinder che abbiamo comprato” disse Simone una volta allacciatosi la scarpa.
   I due fratelli non ci pensarono due volte e scartarono insieme l’uovo di cioccolato.
   “Guarda Giuly, una Winx!” esclamò Riccardo. “Facciamo cambio sorpresa?”
   “Da me c’è una macchinina da montare. Tieni pure Ricky.”
   “Zio, me la monti tu?” chiese Riccardo con la bocca piena di cioccolato.
   “Da’ qua cippolippo” disse sorridendo zio Simone.
   “Zio, lo sai che è morta la nonna di Martina? E’ vero che è andata in cielo?” chiese all’improvviso Giulia. “E’ vero che le persone buone che muoiono vanno in paradiso?”
   Simone le carezzò i folti riccioli che aveva in testa e disse: “Non lo so se vanno in cielo o in paradiso. A dire la verità non lo sa nessuno. Però so che le persone a cui vuoi bene, quando muoiono rimangono dentro di te; entrano in una finestrella che c’è nel nostro cuore e lì vanno ad abitare. Così possiamo parlare con loro tutte le volte che vogliamo. E se stiamo molto attenti riusciamo a sentire anche le loro risposte.”
   “Davvero? Allora i morti ci parlano?” disse la bambina con lo sguardo perso nella sterminata spianata di cemento del parcheggio.
   “Sì, ma non aspettarti di sentire la loro voce. Ci parlano con il silenzio. E’ il bene… il bene che ci legava che ci guida come un lumicino nel buio. Forse sei troppo piccola per capire…”
   “No invece, capisco” interruppe Giulia quasi offesa per la considerazione dello zio. “Sono contenta per Martina. Se domani viene a scuola e piange ancora come ieri al funerale della nonna, le dico quello che mi hai detto. Sai, era tanto triste. Ho pianto tanto anch’io.”
   “Sei una brava bimba Giulia. Diventerai una bravissima donna.”
   “E Riccardo un bravissimo ometto, vero?”
   “Certo, Riccardino un bravissimo ometto” disse zio Simone allungando al nipotino la macchinina montata.
   “Guarda zio” disse Riccardo scoppiando a ridere, “questa macchinina sembra proprio il tuo macinino.”
   “E’ vero” confermò Giulia contagiata dalle risa del fratello.
   “Avanti cippilippi, andiamo a cercare il macinino che si va a casa.”
   Si alzarono e con i bimbi che non riuscivano più a smettere di ridere si misero a cercare la vecchia Polo dello zio nel parcheggio, che nel frattempo, mentre erano nel centro commerciale, si era riempito.
   “Ecco il macinino” disse lo zio dopo alcuni minuti di ricerche. “Tutti a bordo.”

lunedì 3 ottobre 2016

FAR WEST LAZIO - Il volo di Uccellino

Oggi vi propongo le prime pagine del libro Far west Lazio - Il volo di Uccellino, libro che racchiude una sentita intervista fatta da me a mio padre sul "calcio che fu" intervallata da considerazioni personali sul "calcio che è", sulla società alla deriva e sulla mia vita di predestinato. A cosa? Ai poster (!) l'ardua sentenza. 
Vi ricordo che ho copiato il testo da una versione "word" che non era quella definitiva; al massimo, forse, cambia solo qualche parola e c'è qualche refuso non corretto rispetto alla versione pubblicata. 




PREFAZIONE

di Pier Paolo Manservisi


Simone mi ha chiesto di scrivere la prefazione. Non sono molto pratico di queste cose, ma avendo in casa uno scrittore, eventualmente mi correggerà qualche errore e sistemerà la sintassi.
   Giusto ieri ho saputo che a maggio (il 12 per la precisione, data storica per i colori biancocelesti) ci sarà la festa-anniversario per i 40 anni dal primo scudetto laziale. Me lo ha detto il mio ex compagno di squadra, il portiere Felice Pulici dopo che una radio romana “aquilotta” mi aveva telefonato per una chiacchierata in diretta. Durante quei dieci minuti on air abbiamo ricordato i vecchi tempi e io ne ho approfittato, cogliendo la palla al balzo: ho fatto un po’ di promozione a quest’opera che Simone ha da poco terminato, dicendo al pubblico in ascolto che presto uscirà un libro che parla di quella nostra incredibile Lazio.
   “Mi raccomando, portatemene una copia” ha detto Felice.
   “Certamente” ho risposto con voce velata di orgoglio per il lavoro di mio figlio, che so essere un altro importante tassello, non solo della sua crescita letteraria, anche del suo percorso morale e spirituale di uomo libero.
   Ora speriamo che il libro sia pronto per quella data. Manca poco più di un mese e mezzo; Simone dice che ce la faremo, è consapevole e fiducioso del valore (perlomeno affettivo) di quello che ha scritto, lo vedo entusiasta. Ancor più entusiasta mi è sembrato quando gli ho detto di Roma, della festa, dell’Olimpico, dentro al quale non è mai stato. So quanto ci tenga a saldare i conti con il passato, so quanto desideri mettere piede nell’“arena dei ricordi”…
   Queste celebrazioni cadono a fagiolo, come si suol dire, sono una coincidenza che mi auguro di buon auspicio per il libro, per i sogni e i traguardi futuri del suo autore.
   Torneremo molto probabilmente a Roma dunque. Così come si dice che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, tutti torniamo sempre nei luoghi chiave del passato, luoghi a volte metafisici, luoghi dove l’anima ha messo radici. Si torna perché, come dice Simone, anche senza volerlo la vita è una spirale di cerchi che via via si ingrandiscono (qualcuno per la verità percorre la strada opposta, rimpicciolendoli…): per ingrandirsi devono tornare indietro e prendere energia dai cerchi più piccoli (ovvero il passato, la nostra storia). Il ritorno al passato è spesso il trampolino per fare il grande salto in un futuro evoluto.
   Ero già tornato allo Stadio Olimpico nel 2000 per il Centenario della Lazio (fondata nel 1900), dopo che la squadra aveva appena vinto il secondo scudetto. Fu una grande emozione e anche questa volta non sarà da meno. Rivedrò i miei vecchi compagni. Ricorderemo il passato con quel misto di nostalgia e pathos con cui lo ricordano le persone oltrepassata una certa età.
   Nostalgia e pathos permeano “Far West Lazio”, ma non si parla solo di Lazio tra le pagine di questo libro. Nell’intervista che Simone mi ha fatto, il tema centrale è “il volo di Uccellino”, partito da un paesino del Bolognese e, secondo la teoria filosofica di mio figlio, rimasto da allora e per sempre in cielo con le sue ali che sbattono al ritmo di un cuore innamorato della vita.
   E a proposito di vita: “Prima bisogna morire per imparare a vivere. Poi si può vivere per imparare a morire.” Questa me la suggerisce Simone qui a fianco, che sta supervisionando la mia introduzione.
   “Che c’entra?” gli chiedo.
   “Non credo che tutti lo coglieranno, ma dietro a queste parole si nasconde il significato profondo del libro. E non solo del libro…”
   Io non so se ho capito bene cosa voglia intendere con le parole che mi ha consigliato, ma so che “Far West Lazio – Il volo di Uccellino” è un libro che dovreste assolutamente leggere. 


“A Roma volevano che io giocassi come Ghio.
Mi ribellai. Io non sono un imitatore, ma un giocatore di calcio.
Alighiero Noschese avrebbe sfondato in quella squadra, io no.
Mi chiamo Pier Paolo Manservisi e gioco a modo mio.”
(da un’intervista del 1971)


RISCALDAMENTO


1


Vedo un bambino con un logoro pallone di cuoio a pentagoni neri tra i piedi. Vedo il suo sguardo sognante mentre calcia quel pallone contro il muro davanti a casa.

Tum… tum… tutum… tututum… tum…

Vedo i vicini osservarlo con un misto di affetto e disperazione. Vedo la vecchietta del palazzo di fronte aprire la finestra e gridare: “L’è ancoura longa? Socc’mel ec du maròn!”
Siamo nella prima metà degli anni 80. Il bambino è nel suo giardino, ma la sua mente è lontana, vola in un mondo parallelo.
   Lo sento anche quel bambino. Gli sento fare la telecronaca a voce alta della partita immaginaria che sta giocando in quel momento.

“Bellissimo stop al volo di Manservisi, che sembra volare sulla fascia destra del campo… Barbadillo cerca di rubargli la palla, ma Manservisi è un fulmine. Lo salta, salta anche Diaz, tornato nel frattempo in difesa ad arginare questo fiume in piena… Tunnel a Favero… Cross al centro per Caniglia… Colpo di testa di Caniglia… Fuori di un soffio!
   Ricordiamo ai telespettatori che è l’ultima giornata del campionato 1983/84 e la Lazio si gioca lo scudetto contro l’Avellino di mister Bianchi; chi delle due vince è campione d’Italia. Ma torniamo alla partita: palla ancora a Manservisi… È un’altra spettacolare e travolgente azione dell’ala figlia d’arte del grande Pier Paolo. Tiro improvviso! Zaninelli para.
   Mancano pochi secondi alla fine della gara. Petrilli passa a Williams, Williams per Rececchini, Frustavolpi, Frustavolpi avanza, lancio millimetrico per Manservisi che dribbla Colomba, tira… Goool! Gran gol di Manservisi. L’arbitro fischia la fine. La Lazio è campione d’Italia!”

   Sento il bambino urlare di gioia. Lo vedo festeggiare mimando abbracci e “cinque” a compagni invisibili. Vedo passare il postino con un’espressione al tempo stesso divertita e perplessa mentre osserva quel giovane balzano.
   “Dai Simone, vieni a fare i compiti!”
   La mamma risveglia il bambino dal suo sogno ad occhi aperti riportandolo con dispiacere nel mondo reale.

   Adesso quel bambino è un uomo e siede sul divano del salotto accanto a suo padre. Pier Paolo, il padre, campione d’Italia con la Lazio lo è stato veramente nella stagione 1973/74. Simone, il figlio, lo è stato solo nella fantasia. Ma proprio grazie alla fantasia Simone ha vinto il suo campionato, attraversando le tempeste della vita e crescendo sia come persona che come artista dopo aver individuato la propria strada.
   Padre e figlio siedono vicini ora, quest’ultimo ha un quaderno e una penna in mano. Che intenzioni abbia non lo sa nemmeno lui; sa solo che si sente uno scrittore vero e come tale vuole… fare luce.



PRIMO TEMPO


2


È un uggioso pomeriggio di dicembre, Natale è alle porte. Papà siede sul divano, io sono sulla poltrona singola al suo fianco. Poco prima gli avevo chiesto se potevo intervistarlo e ora mi sembra quasi di essere uno psicologo che sta per entrare nei ricordi e nella mente del suo paziente. Sono anche un po’ emozionato perché mi rendo conto dell’eccezionalità della situazione; voglio dire, io che intervisto papà per scrivere un libro… Vi garantisco che è una sensazione stranissima.

S.: Pa’, com’era il mondo negli anni ’50, il mondo paesano intendo, quando eri un bambino/adolescente?

P.: Partiamo da così lontano?

S.: Sì, vorrei sapere com’era il nostro paese, Castello d’Argile, nel dopoguerra, e come si divertivano i giovani.

P.: Argile era quasi tutta campagna. Fuori dalla piazza e dalle porte che delimitano il centro non c’era nulla. Gli svaghi erano pochi, ma con poco ci si divertiva molto (oggi mi sembra che i ragazzi non sappiano più divertirsi). Il pallone era il divertimento più grande. Dove adesso c’è il bar Toni prima c’era il campo sportivo. Quando lo smantellarono per costruirci il bar appunto, ci trasferimmo in un campetto accanto al cimitero. Lì si svolgevano partite interminabili, da dopo pranzo fino a ora di cena. Di solito le sfide erano giovani contro vecchi: noi giovani eravamo adolescenti, mentre i vecchi avevano sui venticinque, trent’anni.

S.: A scuola come andavi?

P.: Insomma, non mi piaceva molto andare a scuola. Sono arrivato alla settima elementare, poi il babbo (tuo nonno Luciano) mi ha messo davanti a un bivio: “Se non ti piace studiare, vai a lavorare” mi disse. Così a 12 anni ho iniziato a lavorare come barbiere nella bottega di un amico.

S.: Qual è stata la tua prima squadra?

P.: La Pejo Corticella, squadra di un quartiere di Bologna. Era il 1960, avevo 16 anni. In quel periodo feci diversi provini per squadre professionistiche insieme ad amici e coetanei del paese: Torino, Inter, Sampdoria. Mi voleva il Bologna, ma Giuliano Sarti, il famoso portiere della Fiorentina e della Nazionale (anch’egli di Castello d’Argile) mi portò a Firenze per un provino e dalla stagione 1960/61 mi trasferii nel capoluogo toscano, acquistato dalla società gigliata.

S.: A casa come la presero?

P.: Erano contenti, in particolare il nonno Luciano, il mio primo tifoso.

S.: Quindi hai fatto le giovanili a Firenze.

P.: Esatto, 3 anni fino alla stagione 1963/64, quando insieme al compianto Ugo Ferrante (successivamente campione d’Italia con i Viola, morto cinquantanovenne nel 2004 dopo una malattia) esordii in serie A: ultima di campionato, Bari – Fiorentina sul neutro di Pescara.

S.: L’anno dopo la Fiorentina ti dette in prestito alla Lucchese. Ti dispiacque molto trovarti in serie C dopo aver sentito il profumo della massima serie?

P.: Beh, un po’ sì, però a Lucca mi trovai benissimo. Vivevo insieme agli altri scapoli della squadra. Ricordo con nostalgia le vasche su e giù per via Fillungo…

S.: In che ruolo giocavi?

P.: Ala destra. A fine stagione misi in carniere un buon bottino: 8 reti.

S.: Prosegue quindi la tua carriera in Toscana.

P.: Già, l’anno dopo sono a Livorno in serie B. Non è stato un anno particolarmente bello; tra l’altro facevo il militare nella Compagnia Atleti di Roma e forse il rendimento sul campo un po’ ne risentì. La stagione seguente rientrai ancora a Firenze, dato che sia a Lucca che a Livorno ero in prestito. Questo è un aneddoto interessante: era la stagione 1966/67, ero ancora sotto la naja. La Fiorentina mi convocò per una partita, dandomi l’opportunità di ri-esordire in serie A. Partii alla volta di Firenze dalla caserma di Roma. A Grosseto mi dissero che non si poteva proseguire per la piena del fiume Ombrone; in treno iniziai un’odissea incredibile, dirigendomi verso Ancona, poi di nuovo fino a Bologna. Da Bologna raggiunsi Firenze in macchina. Era venerdì 4 novembre 1966. L’Arno era strariparo e io e i miei compagni di squadra ci ritrovammo allo stadio comunale a distribuire viveri agli alluvionati.

S.: Così, dal possibile ritorno in serie A, ti trovasti in serie B a Pisa, squadra alla quale ti cedette la Fiorentina. Giusto?

P.: Proprio così. Gran begli anni quelli sotto la Torre! Dopo un primo anno così così sul campo, arrivammo secondi alle spalle del Palermo e insieme al Verona salimmo in serie A. Quell’anno feci ben 13 gol, il mio record personale. Nel 1968/69, al mio terzo anno in nerazzurro, ero finalmente titolare in serie A. Peccato che retrocedemmo subito al termine di quella stagione.

S.: Eravate così scarsi?

P.: No, anzi, con un pizzico di fortuna in più ci saremmo potuti salvare. C’erano dei buoni giocatori in quella rosa: Gonfiantini, Piaceri, Joan, Mascalaito, Ripari.

S.: C’era già il mitico presidente Romeo Anconetani?

P.: Sì, ma non era presidente. Faceva il mediatore, una figura scomparsa, da non confondere con il procuratore. Fu lui che per la stagione 1969/70 mi fece trasferire al Napoli, squadra che scelsi preferendola al Verona, che pure mi voleva. A Verona allenava mister Lucchi, che avevo avuto a Pisa e col quale avevo un ottimo rapporto, ma Napoli era Napoli.

S.: Ok, grazie Pa’, per oggi finiamo qui con la fine della tua avventura in Toscana.

giovedì 29 settembre 2016

MONDEMER

Mondemer è uscito nel 2012, seconda pubblicazione con Edizioni Il Foglio. Narra l'avventura di un gruppo di matti che fugge dal manicomico per andare alla ricerca della Vulva Filosofale. Capeggiati da Jesus (segnatevi il nome perché lo ritroverete nel mio prossimo romanzo) si troveranno di fronte a innumerevoli e pericolosissimi ostacoli durante la scalata al monte che li porterà - se riusciranno a raggiungere la cima - alla libertà e in particolare alla... Verità. Vi omaggio delle prime pagine, primo capitolo incluso.
P.s. Il libro è doverosamente dedicato al grande scrittore Wallace Codroipo.


UN ANEDDOTO 

Da bambino avevo sempre la testa fra le nuvole; già a otto anni il mio passatempo preferito era disegnare fumetti. Ricordo con un pizzico di sana nostalgia i pomeriggi passati a casa dei nonni a inventare storie nell’attesa che mamma e papà tornassero dal lavoro. Durante quelle ore di giorni lontani, chino sul tavolo da cucina che nonna condivideva con me per fare la sfoglia, venivo letteralmente trasportato in altri mondi, lontano mille miglia dalla realtà. Quanto mi piaceva! Quant’ero felice nel Regno della Fantasia!
   Circa sei mesi fa ho iniziato a scrivere questo libro. Non avendo nessuno che mi corre dietro dandomi delle scadenze, posso permettermi di lasciar fluire le parole solo quando l’ispirazione è all’apogeo, senza forzare quegli stati di “normalità” che non producono nulla se non, appunto, normalità.
   Ebbene, dopo aver scritto già diversi capitoli, un giorno mi capita di aprire il cassetto dove custodisco, come fossero documenti di valore inestimabile, i fumetti di cui parlavo: “Io e il pallone”, “I tre diavoli di Parigi”, “Titanus”, “1995 la caduta del Bronx”, “Guerra per il predominio” sono solo alcuni titoli ispirati a film e cartoni animati che guardavo all’epoca. Tra quei cimeli trovo anche un quaderno intitolato “La ricerca della sacra croce”, praticamente il mio primo testo narrativo in assoluto. Dopo chissà quanto tempo lo rileggo emozionato e divertito; è una storia banale e piena di errori ortografici e sintattici, ma avevo undici anni quando lo scrissi (la copertina è datata 1985). Essendo “obbligato” a frequentare il catechismo, io ero influenzato dalle favole che mi raccontavano preti, suore e loro discepoli. Si nota bene ne “La ricerca della sacra croce”, storia di un cavaliere inglese che parte dal suo castello alla ricerca della croce dove era stato crocifisso Gesù. Passando attraverso mille pericoli, che riletti oggi diventano di una comicità involontaria unica, trova infine l’oggetto tanto bramato. Dopo aver piantato la croce sul monte più alto d’Inghilterra (!) la pace regna finalmente nel mondo intero.
   Quando sono arrivato alla fine mi sono accorto delle tante similitudini che accomunano quella storia a questa, legate entrambe da un filo conduttore tanto invisibile quanto solido che ha attraversato oltre un quarto di secolo. Nel frattempo, nel corso degli anni, ho liberato la mente dal giogo delle religioni e dell’ignoranza, ma non potevo certo cancellare quel messaggio universale che accomuna tutti gli uomini dall’inizio dei tempi...
   Anche con gli altri fumetti c’è molto in comune, avventure dove la catarsi deve per forza avvenire dopo un lungo viaggio e una forte sofferenza. Mi sono quindi chiesto se quello che l’artista crea da adulto non sia altro che una continua rielaborazione (per arrivare a una sublimazione) dell’imprinting ricevuto da giovanissimo. La risposta che mi sono dato è: non lo so! Divertitevi.



Cronenberg, il ratto guardiano del Mondemer, per dar tempo ai protagonisti di questo romanzo di truccarsi e ripassare la parte, vi intrattiene citando ieraticamente, tradotte dal suo linguaggio astruo:

“Raggiunto solo a prezzo di enormi sforzi, l’equilibrio psichico di un artista è così delicato che ogni distrazione, ogni interferenza della cruda realtà esterna possono distruggerlo in un attimo: per fare arte bisogna voltare le spalle alla vita.” (Patrick McGrath – “Follia”)

“Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta.” (Giorgio Bassani – “Il giardino dei Finzi-Contini”)

“Io non ho bisogno di fare delle frasi. Scrivo per mettere alla luce certe circostanze. Diffidare della letteratura. Bisogna scrivere tutto come viene alla penna, senza cercare le parole.” (Jean-Paul Sartre – “La nausea)

“Complessivamente, i tuoi libri esprimono un senso della realtà maggiore di quello che esprimi tu.” (Philip Roth – “La lezione di anatomia)

“Certo, in un’epoca di pazzia, immaginare di essere immuni dalla pazzia è una forma di pazzia.”(Saul Bellow – “Il Re della Pioggia”)

“E, ammesso che tu riesca a scappare, non potrai più tornare in patria.”
“Bé, tanto peggio. E poi, la patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (Truman Capote – “Colazione da Tiffany”)

“Che ci facciamo qui Grande Capo? Eh? Che ci facciamo qui noi due in questo posto di merda? Andiamocene via, fuori.” (Jack Nicholson – “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) 



1


Sono matto. È un dato di fatto. Lo sono per la società che mi giudica, lo sono per la legge e lo sono perché un essere umano che ha visto la luce e si è messo in testa di raccontarla, non può essere che matto. L’unica consolazione che mi accompagna in questo viaggio letterario, che descrive però un’esperienza reale, è il fatto che solo i “matti” hanno da sempre raggiunto mete e oltrepassato confini preclusi ai cosiddetti normali o sani di mente.
   Tutto ha inizio con la nascita. No, non è corretto: solo questa storia ha inizio con la nascita, la mia nascita, perché che ci crediate o meno, venire al mondo non è che il culmine di un’incredibile concatenazione di eventi fortuiti e logici e più o meno casuali che partono dall’inizio dei tempi e proseguono ben oltre la morte terrena. Ora però non è il momento di filosofeggiare, anche perché il filosofeggiare di un matto può interessare solo altri matti e in questo mondo i matti sono emarginati, tenuti sotto controllo e spesso messi al rogo perché temuti, metaforicamente parlando; se qualcuno di loro mi sta leggendo potrei già considerarlo un successo clamoroso per questo libro. Quasi un miracolo!
   Dicevo dunque della mia nascita. La teoria sopra accennata assumerà ora una concretezza pratica inconfutabile: venerdì 18 maggio 1973 colui che di lì a qualche mese sarebbe diventato mio padre giocò per l’ennesima volta in vita sua una schedina del totocalcio. La sera di domenica 20 maggio stava osservando allibito i risultati sintonizzato su 90° minuto. Se avesse azzeccato il 13 sarebbe diventato milionario, invece il 12 che aveva in mano gli lasciava solo poche centinaia di lire di consolazione. Aveva sbagliato un solo risultato, quello della sua squadra del cuore, la neopromossa Lazio, che tra l’altro se avesse vinto sarebbe andata a giocarsi lo scudetto in uno spareggio con la Juventus. Il Napoli però gli aveva negato questa gioia come tifoso e soprattutto come scommettitore. Per un solo risultato su 13 la sua vita non aveva svoltato economicamente. Ma come tutti i piccoli e grandi eventi, gliel’aveva fatta svoltare per un’altra strada, nella cui direzione sarei poi apparso io. Ora però era lì, davanti al televisore in bianco e nero nel suo appartamentino della periferia romana che non riusciva a staccare gli occhi da quel Napoli – Lazio 1 a 0. L’incredulità lasciò il posto alla delusione e la delusione si trasformò in pochi minuti in rabbia.
   Turbato e incazzato, il mio imprecante genitore si recò al bar sotto casa e si ubriacò con una bottiglia di Punt e Mes; da una settimana aveva anche perso il lavoro in una ferramenta e quando rientrò trovò sua moglie, la mia futura madre, intenta a seguire un servizio del telegiornale che parlava della strage avvenuta tre giorni prima davanti alla Questura di Milano, dove un ordigno aveva causato quattro morti e decine di feriti. Questo particolare sul cosa stava guardando mia madre alla tv può sembrare superfluo, ma col tempo mi sono fatto l’idea che sono i particolari a fare la differenza, proprio come la fece un gol segnato in una porta anziché in un’altra. Papà la prese con una certa brutalità e proprio quella sera, uno spermatozoo su qualche miliardo intraprese un viaggetto che lo avrebbe trasformato nel sottoscritto. Perché so che accadde proprio quella sera? Perché anni dopo mia madre, nei panni di una mosca, mi avrebbe mostrato come lei e mio padre non facevano l’amore (sarebbe più corretto dire sesso) da mesi e per mesi dopo quella volta non lo fecero. Ma questo lo capirete meglio più avanti.
   Il 20 maggio di quell’anno, all’ultimo minuto dell’ultima partita di campionato della stagione sportiva 1972/73, Oscar Damiani del Napoli infilava la porta di Felice Pulici, portiere della Lazio. Entrambi non avrebbero mai nemmeno sospettato di avere un ruolo fondamentale nel destino del figlio di un uomo che viveva con la moglie in una palazzina di un quartiere fuori Roma. Nemmeno gli altri giocatori in campo allo stadio San Paolo lo avrebbero mai pensato, così come nessuno degli altri loro colleghi impegnati sugli altri campi. Tutti quegli uomini erano nati da uomini e donne che non avrebbero mai saputo di quest’uomo deluso dalla vita che si era ubriacato per non aver centrato un 13 milionario quella maledetta domenica. Eppure, due, ventidue, decine, centinaia, migliaia di persone erano coinvolte invisibilmente in quell’apparentemente insignificante episodio, episodio che sarebbe culminato e si sarebbe protratto con la mia nascita terrena. E la mia nascita avrebbe influenzato altre decine, centinaia, migliaia di persone in modi talmente vari e sottili che se ci si pensa si rischia di diventare… matti.
   Per farla breve e semplificare le cose, basti pensare che se la Lazio quel 20 maggio avesse battuto il Napoli, io sicuramente non sarei qui a scrivere un libro.
   Mamma mi partorì diciotto mesi dopo la fuga per la vittoria dello spermatozoo ribelle, caso unico al mondo che venne studiato da scienziati provenienti da ogni angolo del pianeta. Nessuno però lo venne mai a sapere perché chi mi analizzava ritenne opportuno non divulgare notizie a riguardo, nell’eventualità – almeno questo penso e pensavo – che potessero scoprire in me segreti in grado di rivoluzionare il mondo. Ciò non è ancora accaduto e dopo qualche anno il mio caso ha perso ogni interesse scientifico, anche se ogni tanto venivo ancora sottoposto ad analisi specifiche di ogni sorta, fisiche e psichiche.
   Essere rimasto nel grembo materno il doppio del tempo della gente normale ha avuto le sue conseguenze, negative e positive. Da piccolo per esempio, ci mettevo il doppio del tempo a fare le cose che facevano gli altri: camminare, parlare, apprendere. I miei genitori, che già avrebbero fatto volentieri a meno di un figlio, avevano il sospetto che fossi un ritardato. Anche i tempi di crescita e sviluppo fisico erano doppiamente lenti; solo il naso cresceva il doppio e a velocità normale, tanto che mi sono poi ritrovato adulto con un nasone ciranesco. Non poche persone mi consideravano, con mia grande sofferenza, uno scherzo della natura.
   Ovvio che questa lentezza ha creato una serie di ostacoli anche nei rapporti con i coetanei soprattutto da bambino: molti, per quella perfidia propria degli esseri umani implumi, mi schernivano pesantemente dandomi anche dell’handicappato. A casa ero privato dell’affetto di due genitori che, pur senza cattiveria, mi detestavano nel profondo dei loro cuori. Papà poi, che lavorava due mesi sì e tre no, aveva iniziato a bere forte, mentre mamma si faceva il culo per tutta la famiglia lavorando al mercato ortofrutticolo e invecchiando rancorosa.
   Un aspetto positivo della mia stramba condizione era che la lentezza nel crescere mi faceva invecchiare molto lentamente, tanto che a poco più di vent’anni (quando questa storia entra nel vivo) sembravo un bimbo di  poco più di dodici.
   A quattordici anni, papà, dopo aver cercato di convincere senza riuscirci un suo lontano parente a prendermi nel suo circo come tuttofare o forse come fenomeno da baraccone, mi mandò a vivere da una zia zitella in un piccolo paese del Bolognese: Casaldelbalengo. Ero abbastanza contento per questa decisione; zia Amelia mi voleva bene e il paese emiliano era assai più vivibile della città capitolina, anche se molto più bigotto e ottuso. Cominciai a farmi qualche amico e soprattutto cominciai ad apprendere con maggior velocità, colmando in breve tempo il gap intellettivo che mi separava dai coetanei. Mi iscrissi a un liceo artistico di Bologna. Qui il mio strano aspetto e quell’eccentricità che caratterizzava anche il modo di vestire erano accettati o almeno tollerati. All’epoca adoravo indossare quasi sempre, estate e inverno, una giacca marrone con toppe ai gomiti, camicia bianca con papillon nero a pois bianchi, pantaloni scozzesi di un rosso sbiadito e clarks beige. Il tutto, abbinato a capelli lunghi sempre spettinati mi faceva sembrare un vero e proprio barbone. O un clown. Ma come detto, al liceo artistico “Andy Wharol” di Bologna non importava a nessuno, se non a qualche raro professore un po’ retrò.
   Mi specializzai in fumettistica, finendo la scuola con ottimi voti. Avevo deciso di iscrivermi al dams ma nell’estate che separava le vacanze dalla nuova avventura universitaria, accadde il patatrac. Durante la festa del patrono, si teneva come tradizione la processione che portava la madonna di Casaldelbalengo dalla chiesa al cimitero e viceversa. Quella sera io e un paio di amici liceali eravamo nell’unico bar paesano a bere birra; io ne avevo bevuta davvero tanta e preso dall’euforia scommisi un’altra birra che mi sarei unito senza uno straccio addosso alla processione che stava sfilando in quel momento fuori dal bar. Loro accettarono la scommessa senza dare peso alle mie parole, ma quando videro che mi spogliavo si guardarono tra il divertito e l’allibito. Pochi secondi dopo ero completamente nudo in fila davanti al parroco, dietro la madonna portata da quattro chierichetti. Un paio di vecchiette svennero, urla e fischi di biasimo si alzarono dalla lunga fila di pellegrini. Un signore sulla sessantina mi strattonò e un altro mi coprì con un lenzuolo.
   “Conservate questo straccio” gridai, “diventerà più importante della sacra sindone.”
   Arrivarono i carabinieri e mi portarono via in stato d’arresto. “Sono il vero Messia!” proseguii  mentre mi caricavano in macchina. “Credete a me, non credete alle cazzate che vi raccontano quelli lì! Seguitemi o pecorelle smarrite, sono il vostro pastore…”
   Gli amici che erano al bar con me non sapevano se ridere o preoccuparsi seriamente.
   Quello fu il primo segnale di squilibrio che mostrai in pubblico. Nelle settimane successive ne diedi altri dopo essere stato in carcere per tre giorni e sottoposto a una perizia psichiatrica che mi etichettò come “soggetto non pericoloso ma imprevedibile, affetto da allucinazioni e manie di protagonismo”. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando mi incatenai al monumento al centro della piazza con indosso solo un paio di boxer e una corona di spine sulla testa. Sangue colava dalla fronte e dalle ferite che mi ero procurato sul costato con una lametta.
   “Lapidatemi se avete il coraggio!” urlavo. “Lapidatemi branco di farisei soggiogati dal peso dell’ignoranza.”
   Questa volta fu la Polizia Municipale a intervenire. Mi portarono a casa da zia insieme a due assistenti sociali e a uno psicologo. Le dissero che il mio stato si stava aggravando e forse era il caso di trasferirmi in una struttura adeguata. Anche se ero già maggiorenne le chiesero il consenso; lei lo diede a malincuore perché nessuno mi conosceva bene come zia: sapeva che ero strano ma sapeva anche che il mio cuore era rimasto puro come nei lunghi mesi trascorsi nella placenta materna, non inquinato dalla follia, quella vera, degli uomini.
   Prima del ricovero nel Centro di Igiene Mentale “Antonio Pitigrilli” di Bologna passarono un paio di giorni dopo l’episodio dell’autoflagellazione in piazza. Durante questo breve tempo che mi era concesso parlai molto con zia Amelia anche se non avevamo mai avuto un grandissimo dialogo.
   “Figlio mio” mi disse, “cosa ti sta succedendo? Perché fai tutte quelle cose blasfeme e folli?”
   “Zia cara” risposi, “Tu sola sai quanto ho sofferto sin da piccolo per la mia diversità. Ho attraversato l’adolescenza sentendomi un inetto, un incapace, un buono a nulla. Forse l’unica cosa che mi ha salvato dal suicidio sono stati i fumetti, i miei amici immaginari che oltre a leggere creavo e che erano gli unici a capirmi e a farmi compagnia. Sono sempre stato in bilico tra il resistere e il morire. Se sono ancora qua lo devo a loro. L’arte mi ha traghettato fino a questo porto seppure a fatica. Poi da qualche tempo è successo qualcosa di strano: il mio corpo e la mia mente che hanno sempre funzionato a rilento, si sono come scissi. La mente ingorda sta divorando tutto ciò che ha intorno, mentre il corpo continua il suo trend solito di crescita al rallentatore. Sembra quasi esserci stata un’esplosione nucleare nel mio cervello. Libri e fumetti letti, esperienze vissute, sentimenti provati, concetti, idee: tutto questo ha causato una reazione incontrollata in me. Ho reagito in modi strani e la gente ha ragione ad avere paura. Ma zia amatissima, ricorda, questo è solo il big bang della mia personalità e della mia esistenza. Sono insano di mente per tutti questi ignoranti? E sia, ma se non vorrò farmi incastrare dalla società, dovrò fare ancora molta strada e stare molto attento. Sento che se seguirò la mia “folle” natura, scoprirò qualcosa di importante… Una luce si è accesa dentro di me e adesso dovrò andare per la strada che illumina.”
   “Ma perché provocare a quel modo tutta quella gente?”

   “Zia zia zia, cos’è il genio e cos’è la follia?!” canticchiai. “Non lo so perché, ha fatto tutto il mio istinto sollecitato dall’esplosione cerebronucleare. Credo che volessi dimostrare che sono più figlio del loro Dio io di tutti loro messi assieme. Anzi, sai cosa ti dico? Io da oggi sono Jesus! Ma adesso zia, non ti preoccupare più di niente, vado a farmi una bella vacanza al manicomio.”

venerdì 23 settembre 2016

IL FARDELLO

Pubblicato nel 2011, Il fardello inaugura il mio matrimonio con Edizioni Il Foglio, editore con il quale continuerò a pubblicare negli anni successivi (sette libri fino al 2016). Inaugura anche (mmm... in verità prosegue) la serie di quelli che potrei definire "libri catartici", storie che prima di essere appetibili per il lettore devono essere liberatorie per l'autore. 
   Posto il primo capitoletto di un'opera che si potrebbe definire (non immaginate che fatica faccio a definire i miei libri) un... un... boh, un viaggio onirico. Ciauz.


1


Lo trovai in casa una mattina di agosto; spenta la sveglia e accesa la luce avevo posato lo sguardo sulla scrivania e eccolo lì, accanto alla lampada da tavolo, seminascosto dal portamatite. Erano le dieci e un quarto e, tanto per non smentire il tran tran di quei giorni, il risveglio aveva portato con sé il poco gradito omaggio dei postumi delle bevute notturne al Gang Bang. Ci avevo messo diverso tempo prima di trovare le forze per alzarmi, nonostante fossi molto incuriosito da quel coso di cui non ricordavo la provenienza.
   Lo esaminai alcuni secondi: era un parallelepipedo blu scuro tendente al viola, delle dimensioni di un libro tascabile. In effetti il primo pensiero era stato che si trattasse proprio di un libro.
   “E da dove salta fuori questo?” mi chiesi.
   Lo presi in mano e rimasi sbalordito dalla pesantezza; per essere un oggetto di quelle dimensioni pesava enormemente. Andai in bagno e lo posai sulla bilancia elettronica: 15,7 kg apparve sul quadrante.
   Trovai mamma in cucina con zia Paola e le chiesi cosa fosse quell’aggeggio misterioso.
   “Mamma, sei stata tu a mettere questo sulla mia scrivania?”
   “No, cos’è?”
   “Non lo so. Pensavo me lo sapessi dire. E tu zia Paola? Ne sai niente?”
   “No” replicò zia, “potrebbe essere un fermacarte. Ha un colore molto particolare…”
   “Vero” intervenne mamma. “Ho fatto la sarta tanti anni venendo a contatto con le tinte più diverse ma non ricordo di aver mai visto un colore simile.”
   Bevvi il caffé che mi porse zia Paola cercando di ricordare se quella notte, tra una birra e l’altra con Banana e Rasputin, mi fossi in qualche modo appropriato dell’oggetto pesante non identificato. Qualche volta mi era capitato di esagerare un po’ troppo con l’alcol e non ricordare nitidamente quello che avevo fatto o detto la sera prima, ma la notte in questione non avevo oltrepassato i limiti tanto da avere amnesie post sbronza. Riportai in camera il coso appoggiandolo sul comodino. Mi sedetti alla scrivania, accesi il pc e cercai di andare avanti con il mio romanzo, ma dopo due birre e cinque sigarette non ero ancora riuscito a buttare giù una riga.

mercoledì 21 settembre 2016

SULL'ORLO DI UN DIRUPO

Oggi posto la prefazione (del buon Gianluca Morozzi) e il primo capitolo di Sull'orlo di un dirupo (storie di calcio e di anarchia), libro che potrei definire il mio "bestseller", virgolettato perché parliamo pur sempre di poche centinaia di copie (quando venderò mille libri in libreria mi vedrete nudo e ubriaco a fingere di pregare sulla tomba di mio nonno Hank). Provo sempre una sorta di paura nel rileggere parti dei miei vecchi libri, forse perché temo di rimanerci male, di pensare "che cagata che ho scritto!" o "come l'ho scritta male!", ma d'altra parte bisogna pure - ed è una buona regola anche per la vita - rileggere il passato per scrivere bene il presente.
   Questo libro poi mi è molto caro, perché... beh se volete sapere (intuire) perché, leggetelo!




PREFAZIONE

di Gianluca Morozzi
  

Era il 1987, e sul campo metà in stile giungla e metà in terra battuta della Quercia era atterrato un pallone. Era atterrato qualche metro oltre alla quasi invisibile linea dell’aria, respinto alla disperata dai pugni del portiere. Su quel pallone, stretto nelle maglie giallo canarino della Longobarda, ristrette al primo lavaggio fin quasi al soffocamento, mi ero avventato io. Senza aspettare che toccasse terra per tentare il tiro di controbalzo, che su quel terreno pietroso il pallone sarebbe potuto schizzare dappertutto.
Sono passati venticinque anni, e da allora ho sentito un miliardo di suoni e di rumori. Ma il Thumm! del pallone che impattava con il collo del mio piede destro e il Flosccc! della rete che si gonfiava un attimo dopo ce li ho ancora qui, nelle orecchie, come se avessi colpito quel pallone questo pomeriggio.
Questo libro è per chi ha ancora quei bellissimi suoni nelle orecchie. E nel cuore.       




IL PIU’ GRANDE SOGNO DELLA MIA VITA
  

Quando leggo sul giornale di un ragazzo morto per overdose, quando sento per radio di un giovane suicida, quando vedo, ovunque, un essere umano che butta via la propria vita e il proprio talento, magari affogando l’una e l’altro in un bicchiere, non posso fare a meno di pensare: “Quello potevo essere io tanti anni fa!”
   Così, frugando nel passato, un’altra riflessione nasce di conseguenza, lasciandomi per certi versi ancora sbalordito: “E' un miracolo che uno come me, sensibile a livelli quasi patologici, sia sopravvissuto a quel terremoto.”
   Chi ha avuto grandi sogni da realizzare e si è svegliato un giorno con un fardello paralizzante sulla schiena potrà capire meglio di cosa parlo. E già che siamo all’inizio, voglio fare una premessa molto importante: questo libro parla di calcio, ma è come se parlasse di qualsiasi altro sport o passione. Questo libro è per chi ama il calcio, per chi lo odia e per chi se ne frega. Questo libro parla di VITA e le sue pagine gridano, in particolar modo ai giovani e ai loro genitori, una specie di implorazione: LEGGETEMI! Ne vale la pena, sempre che leggere abbia a che fare con la sofferenza piuttosto che col piacere.
   Il più grande sogno della mia vita è stato diventare un calciatore di serie A. D’altra parte il mio destino era in un certo senso segnato: papà era stato un calciatore di massima serie tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta e io volevo essere come lui, più forte di lui. Non so esattamente quando c’è stato l’imprinting ma già a sette otto anni quello era il mio obiettivo. La mattina andavo a scuola poi trascorrevo interi pomeriggi fino a ora di cena a palleggiare e tirare contro il muro davanti a casa, per la disperazione dei vicini.
   Nel 1984, a nove anni, il sogno comincia ad avere i contorni e i colori più definiti delle maglie di una squadra di calcio del paese che mi “arruola” tra le sue fila; disputo così il mio primo campionato e l’anno dopo un’altra squadra paesana, un po’ più blasonata, mi convince a cambiare casacca. Qui scoppia il finimondo perché la squadra che lasciavo era filocomunista, con sede al Bar Arci, mentre quella in cui approdavo era filodemocristiana, con sede al Bar Acli. Venni così “accusato” di alto tradimento e per qualche mese fui vittima di scherzi pesanti e attentati alla mia bicicletta. Allora non la vedevo così divertente, ma oggi non posso che sorridere a quei tempi guareschiani.
   Per tre anni giocai nelle giovanili della Libertas Castello d’Argile, poi venni notato dagli osservatori della Centese, società che viveva in quel momento il suo periodo d’oro nel professionismo (C1 e C2) e a quattordici anni compii un ulteriore passo verso la realizzazione del Grande Sogno.
   A Cento feci il primo anno nella categoria Giovanissimi quindi passai alla categoria Allievi nazionali ed è qui che sulla mia strada appare lo pseudoallenatore Rolando Pidocchi. Per un ragazzino timido e buono, incapace quasi di arrabbiarsi seppur determinato a raggiungere il suo scopo, trovarsi alla mercé del peggior psicopatico della provincia era praticamente come permettere a un prete pedofilo di fare dottrina a una classe di bambini nudi. Il Mister era quanto di peggio si potesse trovare sulla piazza in materia di educazione sportiva: insegnava a perdere tempo quando si vinceva, a fare falli tattici anche violenti, a simulare, a provocare. E aveva in antipatia chi non alzava mai la voce e faceva della correttezza la sua bandiera. Se poi questo ragazzino che parlava poco e si impegnava tanto non rideva neanche alle sue barzellette scadenti, la croce era piantata!
   Ricordo una volta che raccontò una delle sue freddure e io rimasi l’unico serio del gruppo: a fine allenamento mi chiamò nel suo spogliatoio e mi fece un cazziatone di mezz’ora. Un’altra volta subii una lunga lavata di capo perché portavo i capelli lunghi e spettinati e la società voleva che i suoi giovani tesserati fossero tutti belli e presentabili… Dev’essere nata allora la mia avversione leggermente provocatoria nei confronti delle “eleganti apparenze”.
   La mia pervicacia nel non volergliela dare vinta (o non potergliela dare vinta, dato che non è possibile cambiare la propria natura) aveva l’ulteriore conseguenza che spesso il Pidocchi non mi convocava nelle trasferte contro squadre per cui avrei fatto la strada a piedi da Cento pur di giocarci contro. Vedi Genoa e Juventus. Qualcuno potrebbe pensare che non mi convocasse perché c’era chi era più bravo e meritava più di me, in realtà se parliamo di impegno, serietà e talento erano pochi quelli che mi superavano in quella squadra, forse nessuno; agli occhi del Rolando avevo un solo grande difetto: ero troppo puro!
   Così soffrivo, in silenzio come purtroppo o per fortuna era nel mio carattere. Passai un anno da incubo, ma l’amore per il calcio era troppo grande per abbattermi, anche se indubbiamente qualcosa in me mutò. Chiosando ulteriormente sul periodo, ho sempre pensato che se non fossi incappato in un simile maniaco a quell’età, forse tutta la mia carriera sarebbe stata diversa, ma sono pensieri stupidi e inutili. L’ho capito molto tempo dopo, quando mi sono reso conto che proprio le sofferenze, le batoste, le violenze subite e le delusioni si possono trasformare in incredibili opportunità. Solo chi riesce a metabolizzare il dolore può vivere una vita spirituale e illuminata, spargendo a sua volta la luce che ha dentro. Da adulto (e io sono diventato adulto tardi se per adulto si intende uno che ha imparato a vivere seguendo la propria natura senza farsi travolgere dalle avversità) ho iniziato a vedere il mio passato da una prospettiva che non avrei mai immaginato potesse esistere: oggi, lo dico senza paura di passare per presuntuoso, sono diventato una delle persone più serene e illuminate che conosca; riesco persino a provare compassione per un Pidocchi, anzi, è anche grazie a lui che ho iniziato ad allenare bimbi sperando di trasmettere quell’amore per la vita e quella passione per il calcio che avevano cercato di negarmi tarpandomi le ali. Di questo però parlerò più avanti.
   Quello che ho appena scritto è un assist che mi faccio per introdurre il concetto di Filosofia del Calcio. Cos’è? E’ quel modo di pensare che mi fa trovare un paragone con il calcio in tutto ciò che ci accade quotidianamente. Ti impegni per ottenere un risultato lavorativo ma non lo ottieni? E’ come nel calcio: non ti demoralizzare e continua per la tua strada a testa alta e vedrai che prima o poi avrai grandi soddisfazioni. La tua donna ti tradisce? E’ come nel calcio: la tua squadra o i tuoi compagni prima o poi ti deluderanno per comportamenti poco corretti, ma tu sii sempre corretto e non tradire mai la tua squadra e i tuoi compagni. Ne vedrai i risultati. Qualcuno ti insulta per quello che fai, pensi o scrivi? E’ come nel calcio: invece che reagire e farti espellere, tramuta in forza e determinazione ancora maggiori l’insulto. Dimostrerai di essere un campione vero, anche come uomo. E così via. Potrei fare mille esempi. E’ sempre come nel calcio. E come nel calcio, se sai vincere e perdere con dignità, sarai sempre un fuoriclasse nella vita.


martedì 20 settembre 2016

VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE (INTRODUZIONE)

Un particolare accomuna l'introduzione al libro di racconti e vignette Volevo solo essere normale ad Appunti di un naufrago sentimentale e cioè il fatto che abbia sentito il bisogno di precisare che la molla che mi spinge a scrivere è una sorta di tensione esistenziale o di malessere o meglio ancora di idiosincrasia nei confronti di una massa in cui mi trovo anch'io fagocitato (soffocato). Beh, direi che non c'è niente di male ad essere ispirati dalla "sofferenza", anzi, un amico scrittore diceva sempre che "se fossi sereno e felice non avrei proprio nessun bisogno di scrivere." Ecco, ho bisogno di scrivere per tornare a respirare e non farmi travolgere dal dolore e dalla follia umana.



INTRODUZIONE


Un anno di racconti. Quando ho iniziato a scrivere quelli che compongono questa raccolta, nel febbraio del 2015, vivevo un periodo in cui avevo bisogno di ricaricare le pile. Ero stanco, debilitato dal dover sopportare quotidianamente la mediocrità umana. Ogni tanto capita.
   Cosa faccio quando capita? Scrivo. Scrivendo mi ricarico. È incredibile il potere energizzante della scrittura. Più scrivo più sono ispirato, o cambiando l’ordine degli addendi: più sono ispirato più scrivo. Il risultato non cambia. L’ispirazione aumenta man mano creo nuove storie.
   Devi sapere, amico lettore, che c’è stato un tempo in cui ho sofferto molto, un tempo dove la mia fragilità ha rischiato di uccidermi, un tempo in cui mi chiedevo perché fossi così sbagliato; per il mio stato di diverso (con accezione negativa) incolpavo la sfiga, la natura, l’ambiente, le persone, i miei cari… Poi un giorno, mentre percorrevo la strada della vita, è successo qualcosa: l’illuminazione! Non è avvenuta di punto in bianco, casualmente; ci sono voluti anni, esperienze, ferite, cicatrici, riflessioni, meditazioni e metabolizzazioni per far sì che si creassero i presupposti per l’illuminazione. Ci sono voluti cuore, mente e spirito affinché la luce potesse accendersi. Quel giorno (continuo a chiamarlo giorno ma non è identificabile in un momento temporale preciso) HO CAPITO. Se però mi chiedi “cos’hai capito?” è inutile che continui a leggere. Se mi poni una domanda simile è ovvio che non hai capito nulla e se cercassi di risponderti dimostrerei di non aver capito nulla neanch’io. Ti basti sapere che quel giorno X ho smesso di dare colpe, anche a me stesso. Ho iniziato a vedermi da una prospettiva diversa, illuminato da una luce diversa. Gli enormi difetti che avevo si sono amalgamati con i pregi facendomi scorgere Simone nella sua interezza (completezza?!), non più auto-percepito come una sorta di handicappato, bensì come un uomo unico, diverso in senso positivo questa volta. Certo, solo, tanto solo, ma non può essere altrimenti  in questo mondo di persone omologate, schiavizzate, le cui capacità mentali sono manipolate appena escono dal grembo materno.
   Sulla Terra mi sono sempre sentito un alieno. Sento l’amore della gente che mi è vicina e spero di trasmettergli il mio, ma  la solitudine è una presenza costante. Intanto scrivere mi tiene compagnia, mi riempie e mi fa sentire vivo. Che sia un bravo scrittore o meno me ne sbatto la fava. Scrivo ergo esisto, anche se, tornando al discorso iniziale riguardante SCRITTURA+ISPIRAZIONE non è per niente facile essere scrittori entusiasti di questi tempi. Se sei uno sconosciuto e non hai sponsor chi ti caga? In un mondo dove l’unica cosa che la maggior parte della gente legge sono le quattro righe di un post di Facebook – sforzandosi per giunta, perché già cinque sono troppe – scrivere è come vendere bibbie a Baghdad. Pochi leggono autori senza un nome, quindi per farsi leggere bisogna darsi da fare. Io cerco di promuovermi tramite internet, presentazioni, bancarelle. Lo faccio con passione perché credo nelle mie opere, nelle parole che scrivo, nei concetti che tento di esprimere. Vado fiero delle mie perle perché penso che abbiano un certo valore. Però, metaforicamente e poco umilmente parlando, mi sembra sempre di gettare perle ai porci. Se stai leggendo questo, amico, potresti, mi auguro, non essere un porco…
   I trenta racconti che compongono la raccolta – scritti nell’arco di circa dodici mesi partendo da febbraio 2015, come ho detto – sono inseriti in ordine cronologico, dal primo all’ultimo. Avevo pensato di mettere anche vecchie novelle, ma oltre ad essere reperibili qua e là in internet, ho ritenuto non avesse senso aggiungerle in quanto rappresentanti di un Simone “vecchio”. In Volevo solo essere normale è racchiuso lo stile, l’essenza e la maturità del Simone attuale, un Simone “nuovo” e sempre più rinnovabile.
   Per quanto riguarda le venti vignette invece, scarabocchiate negli ultimi anni, ho optato per non inserirle in ordine temporale, ma anche loro hanno un senso e non sono meno importanti dei racconti, anzi, forse lo sono maggiormente perché questi sfoghi visivi e visionari sono come sogni, sogni da interpretare. E saper interpretare il mondo onirico illumina la strada nel mondo reale.
   Che (D)io vi illumini!

Castello d’Argile, gennaio 2016