giovedì 29 settembre 2016

MONDEMER

Mondemer è uscito nel 2012, seconda pubblicazione con Edizioni Il Foglio. Narra l'avventura di un gruppo di matti che fugge dal manicomico per andare alla ricerca della Vulva Filosofale. Capeggiati da Jesus (segnatevi il nome perché lo ritroverete nel mio prossimo romanzo) si troveranno di fronte a innumerevoli e pericolosissimi ostacoli durante la scalata al monte che li porterà - se riusciranno a raggiungere la cima - alla libertà e in particolare alla... Verità. Vi omaggio delle prime pagine, primo capitolo incluso.
P.s. Il libro è doverosamente dedicato al grande scrittore Wallace Codroipo.


UN ANEDDOTO 

Da bambino avevo sempre la testa fra le nuvole; già a otto anni il mio passatempo preferito era disegnare fumetti. Ricordo con un pizzico di sana nostalgia i pomeriggi passati a casa dei nonni a inventare storie nell’attesa che mamma e papà tornassero dal lavoro. Durante quelle ore di giorni lontani, chino sul tavolo da cucina che nonna condivideva con me per fare la sfoglia, venivo letteralmente trasportato in altri mondi, lontano mille miglia dalla realtà. Quanto mi piaceva! Quant’ero felice nel Regno della Fantasia!
   Circa sei mesi fa ho iniziato a scrivere questo libro. Non avendo nessuno che mi corre dietro dandomi delle scadenze, posso permettermi di lasciar fluire le parole solo quando l’ispirazione è all’apogeo, senza forzare quegli stati di “normalità” che non producono nulla se non, appunto, normalità.
   Ebbene, dopo aver scritto già diversi capitoli, un giorno mi capita di aprire il cassetto dove custodisco, come fossero documenti di valore inestimabile, i fumetti di cui parlavo: “Io e il pallone”, “I tre diavoli di Parigi”, “Titanus”, “1995 la caduta del Bronx”, “Guerra per il predominio” sono solo alcuni titoli ispirati a film e cartoni animati che guardavo all’epoca. Tra quei cimeli trovo anche un quaderno intitolato “La ricerca della sacra croce”, praticamente il mio primo testo narrativo in assoluto. Dopo chissà quanto tempo lo rileggo emozionato e divertito; è una storia banale e piena di errori ortografici e sintattici, ma avevo undici anni quando lo scrissi (la copertina è datata 1985). Essendo “obbligato” a frequentare il catechismo, io ero influenzato dalle favole che mi raccontavano preti, suore e loro discepoli. Si nota bene ne “La ricerca della sacra croce”, storia di un cavaliere inglese che parte dal suo castello alla ricerca della croce dove era stato crocifisso Gesù. Passando attraverso mille pericoli, che riletti oggi diventano di una comicità involontaria unica, trova infine l’oggetto tanto bramato. Dopo aver piantato la croce sul monte più alto d’Inghilterra (!) la pace regna finalmente nel mondo intero.
   Quando sono arrivato alla fine mi sono accorto delle tante similitudini che accomunano quella storia a questa, legate entrambe da un filo conduttore tanto invisibile quanto solido che ha attraversato oltre un quarto di secolo. Nel frattempo, nel corso degli anni, ho liberato la mente dal giogo delle religioni e dell’ignoranza, ma non potevo certo cancellare quel messaggio universale che accomuna tutti gli uomini dall’inizio dei tempi...
   Anche con gli altri fumetti c’è molto in comune, avventure dove la catarsi deve per forza avvenire dopo un lungo viaggio e una forte sofferenza. Mi sono quindi chiesto se quello che l’artista crea da adulto non sia altro che una continua rielaborazione (per arrivare a una sublimazione) dell’imprinting ricevuto da giovanissimo. La risposta che mi sono dato è: non lo so! Divertitevi.



Cronenberg, il ratto guardiano del Mondemer, per dar tempo ai protagonisti di questo romanzo di truccarsi e ripassare la parte, vi intrattiene citando ieraticamente, tradotte dal suo linguaggio astruo:

“Raggiunto solo a prezzo di enormi sforzi, l’equilibrio psichico di un artista è così delicato che ogni distrazione, ogni interferenza della cruda realtà esterna possono distruggerlo in un attimo: per fare arte bisogna voltare le spalle alla vita.” (Patrick McGrath – “Follia”)

“Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta.” (Giorgio Bassani – “Il giardino dei Finzi-Contini”)

“Io non ho bisogno di fare delle frasi. Scrivo per mettere alla luce certe circostanze. Diffidare della letteratura. Bisogna scrivere tutto come viene alla penna, senza cercare le parole.” (Jean-Paul Sartre – “La nausea)

“Complessivamente, i tuoi libri esprimono un senso della realtà maggiore di quello che esprimi tu.” (Philip Roth – “La lezione di anatomia)

“Certo, in un’epoca di pazzia, immaginare di essere immuni dalla pazzia è una forma di pazzia.”(Saul Bellow – “Il Re della Pioggia”)

“E, ammesso che tu riesca a scappare, non potrai più tornare in patria.”
“Bé, tanto peggio. E poi, la patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (Truman Capote – “Colazione da Tiffany”)

“Che ci facciamo qui Grande Capo? Eh? Che ci facciamo qui noi due in questo posto di merda? Andiamocene via, fuori.” (Jack Nicholson – “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) 



1


Sono matto. È un dato di fatto. Lo sono per la società che mi giudica, lo sono per la legge e lo sono perché un essere umano che ha visto la luce e si è messo in testa di raccontarla, non può essere che matto. L’unica consolazione che mi accompagna in questo viaggio letterario, che descrive però un’esperienza reale, è il fatto che solo i “matti” hanno da sempre raggiunto mete e oltrepassato confini preclusi ai cosiddetti normali o sani di mente.
   Tutto ha inizio con la nascita. No, non è corretto: solo questa storia ha inizio con la nascita, la mia nascita, perché che ci crediate o meno, venire al mondo non è che il culmine di un’incredibile concatenazione di eventi fortuiti e logici e più o meno casuali che partono dall’inizio dei tempi e proseguono ben oltre la morte terrena. Ora però non è il momento di filosofeggiare, anche perché il filosofeggiare di un matto può interessare solo altri matti e in questo mondo i matti sono emarginati, tenuti sotto controllo e spesso messi al rogo perché temuti, metaforicamente parlando; se qualcuno di loro mi sta leggendo potrei già considerarlo un successo clamoroso per questo libro. Quasi un miracolo!
   Dicevo dunque della mia nascita. La teoria sopra accennata assumerà ora una concretezza pratica inconfutabile: venerdì 18 maggio 1973 colui che di lì a qualche mese sarebbe diventato mio padre giocò per l’ennesima volta in vita sua una schedina del totocalcio. La sera di domenica 20 maggio stava osservando allibito i risultati sintonizzato su 90° minuto. Se avesse azzeccato il 13 sarebbe diventato milionario, invece il 12 che aveva in mano gli lasciava solo poche centinaia di lire di consolazione. Aveva sbagliato un solo risultato, quello della sua squadra del cuore, la neopromossa Lazio, che tra l’altro se avesse vinto sarebbe andata a giocarsi lo scudetto in uno spareggio con la Juventus. Il Napoli però gli aveva negato questa gioia come tifoso e soprattutto come scommettitore. Per un solo risultato su 13 la sua vita non aveva svoltato economicamente. Ma come tutti i piccoli e grandi eventi, gliel’aveva fatta svoltare per un’altra strada, nella cui direzione sarei poi apparso io. Ora però era lì, davanti al televisore in bianco e nero nel suo appartamentino della periferia romana che non riusciva a staccare gli occhi da quel Napoli – Lazio 1 a 0. L’incredulità lasciò il posto alla delusione e la delusione si trasformò in pochi minuti in rabbia.
   Turbato e incazzato, il mio imprecante genitore si recò al bar sotto casa e si ubriacò con una bottiglia di Punt e Mes; da una settimana aveva anche perso il lavoro in una ferramenta e quando rientrò trovò sua moglie, la mia futura madre, intenta a seguire un servizio del telegiornale che parlava della strage avvenuta tre giorni prima davanti alla Questura di Milano, dove un ordigno aveva causato quattro morti e decine di feriti. Questo particolare sul cosa stava guardando mia madre alla tv può sembrare superfluo, ma col tempo mi sono fatto l’idea che sono i particolari a fare la differenza, proprio come la fece un gol segnato in una porta anziché in un’altra. Papà la prese con una certa brutalità e proprio quella sera, uno spermatozoo su qualche miliardo intraprese un viaggetto che lo avrebbe trasformato nel sottoscritto. Perché so che accadde proprio quella sera? Perché anni dopo mia madre, nei panni di una mosca, mi avrebbe mostrato come lei e mio padre non facevano l’amore (sarebbe più corretto dire sesso) da mesi e per mesi dopo quella volta non lo fecero. Ma questo lo capirete meglio più avanti.
   Il 20 maggio di quell’anno, all’ultimo minuto dell’ultima partita di campionato della stagione sportiva 1972/73, Oscar Damiani del Napoli infilava la porta di Felice Pulici, portiere della Lazio. Entrambi non avrebbero mai nemmeno sospettato di avere un ruolo fondamentale nel destino del figlio di un uomo che viveva con la moglie in una palazzina di un quartiere fuori Roma. Nemmeno gli altri giocatori in campo allo stadio San Paolo lo avrebbero mai pensato, così come nessuno degli altri loro colleghi impegnati sugli altri campi. Tutti quegli uomini erano nati da uomini e donne che non avrebbero mai saputo di quest’uomo deluso dalla vita che si era ubriacato per non aver centrato un 13 milionario quella maledetta domenica. Eppure, due, ventidue, decine, centinaia, migliaia di persone erano coinvolte invisibilmente in quell’apparentemente insignificante episodio, episodio che sarebbe culminato e si sarebbe protratto con la mia nascita terrena. E la mia nascita avrebbe influenzato altre decine, centinaia, migliaia di persone in modi talmente vari e sottili che se ci si pensa si rischia di diventare… matti.
   Per farla breve e semplificare le cose, basti pensare che se la Lazio quel 20 maggio avesse battuto il Napoli, io sicuramente non sarei qui a scrivere un libro.
   Mamma mi partorì diciotto mesi dopo la fuga per la vittoria dello spermatozoo ribelle, caso unico al mondo che venne studiato da scienziati provenienti da ogni angolo del pianeta. Nessuno però lo venne mai a sapere perché chi mi analizzava ritenne opportuno non divulgare notizie a riguardo, nell’eventualità – almeno questo penso e pensavo – che potessero scoprire in me segreti in grado di rivoluzionare il mondo. Ciò non è ancora accaduto e dopo qualche anno il mio caso ha perso ogni interesse scientifico, anche se ogni tanto venivo ancora sottoposto ad analisi specifiche di ogni sorta, fisiche e psichiche.
   Essere rimasto nel grembo materno il doppio del tempo della gente normale ha avuto le sue conseguenze, negative e positive. Da piccolo per esempio, ci mettevo il doppio del tempo a fare le cose che facevano gli altri: camminare, parlare, apprendere. I miei genitori, che già avrebbero fatto volentieri a meno di un figlio, avevano il sospetto che fossi un ritardato. Anche i tempi di crescita e sviluppo fisico erano doppiamente lenti; solo il naso cresceva il doppio e a velocità normale, tanto che mi sono poi ritrovato adulto con un nasone ciranesco. Non poche persone mi consideravano, con mia grande sofferenza, uno scherzo della natura.
   Ovvio che questa lentezza ha creato una serie di ostacoli anche nei rapporti con i coetanei soprattutto da bambino: molti, per quella perfidia propria degli esseri umani implumi, mi schernivano pesantemente dandomi anche dell’handicappato. A casa ero privato dell’affetto di due genitori che, pur senza cattiveria, mi detestavano nel profondo dei loro cuori. Papà poi, che lavorava due mesi sì e tre no, aveva iniziato a bere forte, mentre mamma si faceva il culo per tutta la famiglia lavorando al mercato ortofrutticolo e invecchiando rancorosa.
   Un aspetto positivo della mia stramba condizione era che la lentezza nel crescere mi faceva invecchiare molto lentamente, tanto che a poco più di vent’anni (quando questa storia entra nel vivo) sembravo un bimbo di  poco più di dodici.
   A quattordici anni, papà, dopo aver cercato di convincere senza riuscirci un suo lontano parente a prendermi nel suo circo come tuttofare o forse come fenomeno da baraccone, mi mandò a vivere da una zia zitella in un piccolo paese del Bolognese: Casaldelbalengo. Ero abbastanza contento per questa decisione; zia Amelia mi voleva bene e il paese emiliano era assai più vivibile della città capitolina, anche se molto più bigotto e ottuso. Cominciai a farmi qualche amico e soprattutto cominciai ad apprendere con maggior velocità, colmando in breve tempo il gap intellettivo che mi separava dai coetanei. Mi iscrissi a un liceo artistico di Bologna. Qui il mio strano aspetto e quell’eccentricità che caratterizzava anche il modo di vestire erano accettati o almeno tollerati. All’epoca adoravo indossare quasi sempre, estate e inverno, una giacca marrone con toppe ai gomiti, camicia bianca con papillon nero a pois bianchi, pantaloni scozzesi di un rosso sbiadito e clarks beige. Il tutto, abbinato a capelli lunghi sempre spettinati mi faceva sembrare un vero e proprio barbone. O un clown. Ma come detto, al liceo artistico “Andy Wharol” di Bologna non importava a nessuno, se non a qualche raro professore un po’ retrò.
   Mi specializzai in fumettistica, finendo la scuola con ottimi voti. Avevo deciso di iscrivermi al dams ma nell’estate che separava le vacanze dalla nuova avventura universitaria, accadde il patatrac. Durante la festa del patrono, si teneva come tradizione la processione che portava la madonna di Casaldelbalengo dalla chiesa al cimitero e viceversa. Quella sera io e un paio di amici liceali eravamo nell’unico bar paesano a bere birra; io ne avevo bevuta davvero tanta e preso dall’euforia scommisi un’altra birra che mi sarei unito senza uno straccio addosso alla processione che stava sfilando in quel momento fuori dal bar. Loro accettarono la scommessa senza dare peso alle mie parole, ma quando videro che mi spogliavo si guardarono tra il divertito e l’allibito. Pochi secondi dopo ero completamente nudo in fila davanti al parroco, dietro la madonna portata da quattro chierichetti. Un paio di vecchiette svennero, urla e fischi di biasimo si alzarono dalla lunga fila di pellegrini. Un signore sulla sessantina mi strattonò e un altro mi coprì con un lenzuolo.
   “Conservate questo straccio” gridai, “diventerà più importante della sacra sindone.”
   Arrivarono i carabinieri e mi portarono via in stato d’arresto. “Sono il vero Messia!” proseguii  mentre mi caricavano in macchina. “Credete a me, non credete alle cazzate che vi raccontano quelli lì! Seguitemi o pecorelle smarrite, sono il vostro pastore…”
   Gli amici che erano al bar con me non sapevano se ridere o preoccuparsi seriamente.
   Quello fu il primo segnale di squilibrio che mostrai in pubblico. Nelle settimane successive ne diedi altri dopo essere stato in carcere per tre giorni e sottoposto a una perizia psichiatrica che mi etichettò come “soggetto non pericoloso ma imprevedibile, affetto da allucinazioni e manie di protagonismo”. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando mi incatenai al monumento al centro della piazza con indosso solo un paio di boxer e una corona di spine sulla testa. Sangue colava dalla fronte e dalle ferite che mi ero procurato sul costato con una lametta.
   “Lapidatemi se avete il coraggio!” urlavo. “Lapidatemi branco di farisei soggiogati dal peso dell’ignoranza.”
   Questa volta fu la Polizia Municipale a intervenire. Mi portarono a casa da zia insieme a due assistenti sociali e a uno psicologo. Le dissero che il mio stato si stava aggravando e forse era il caso di trasferirmi in una struttura adeguata. Anche se ero già maggiorenne le chiesero il consenso; lei lo diede a malincuore perché nessuno mi conosceva bene come zia: sapeva che ero strano ma sapeva anche che il mio cuore era rimasto puro come nei lunghi mesi trascorsi nella placenta materna, non inquinato dalla follia, quella vera, degli uomini.
   Prima del ricovero nel Centro di Igiene Mentale “Antonio Pitigrilli” di Bologna passarono un paio di giorni dopo l’episodio dell’autoflagellazione in piazza. Durante questo breve tempo che mi era concesso parlai molto con zia Amelia anche se non avevamo mai avuto un grandissimo dialogo.
   “Figlio mio” mi disse, “cosa ti sta succedendo? Perché fai tutte quelle cose blasfeme e folli?”
   “Zia cara” risposi, “Tu sola sai quanto ho sofferto sin da piccolo per la mia diversità. Ho attraversato l’adolescenza sentendomi un inetto, un incapace, un buono a nulla. Forse l’unica cosa che mi ha salvato dal suicidio sono stati i fumetti, i miei amici immaginari che oltre a leggere creavo e che erano gli unici a capirmi e a farmi compagnia. Sono sempre stato in bilico tra il resistere e il morire. Se sono ancora qua lo devo a loro. L’arte mi ha traghettato fino a questo porto seppure a fatica. Poi da qualche tempo è successo qualcosa di strano: il mio corpo e la mia mente che hanno sempre funzionato a rilento, si sono come scissi. La mente ingorda sta divorando tutto ciò che ha intorno, mentre il corpo continua il suo trend solito di crescita al rallentatore. Sembra quasi esserci stata un’esplosione nucleare nel mio cervello. Libri e fumetti letti, esperienze vissute, sentimenti provati, concetti, idee: tutto questo ha causato una reazione incontrollata in me. Ho reagito in modi strani e la gente ha ragione ad avere paura. Ma zia amatissima, ricorda, questo è solo il big bang della mia personalità e della mia esistenza. Sono insano di mente per tutti questi ignoranti? E sia, ma se non vorrò farmi incastrare dalla società, dovrò fare ancora molta strada e stare molto attento. Sento che se seguirò la mia “folle” natura, scoprirò qualcosa di importante… Una luce si è accesa dentro di me e adesso dovrò andare per la strada che illumina.”
   “Ma perché provocare a quel modo tutta quella gente?”

   “Zia zia zia, cos’è il genio e cos’è la follia?!” canticchiai. “Non lo so perché, ha fatto tutto il mio istinto sollecitato dall’esplosione cerebronucleare. Credo che volessi dimostrare che sono più figlio del loro Dio io di tutti loro messi assieme. Anzi, sai cosa ti dico? Io da oggi sono Jesus! Ma adesso zia, non ti preoccupare più di niente, vado a farmi una bella vacanza al manicomio.”

venerdì 23 settembre 2016

IL FARDELLO

Pubblicato nel 2011, Il fardello inaugura il mio matrimonio con Edizioni Il Foglio, editore con il quale continuerò a pubblicare negli anni successivi (sette libri fino al 2016). Inaugura anche (mmm... in verità prosegue) la serie di quelli che potrei definire "libri catartici", storie che prima di essere appetibili per il lettore devono essere liberatorie per l'autore. 
   Posto il primo capitoletto di un'opera che si potrebbe definire (non immaginate che fatica faccio a definire i miei libri) un... un... boh, un viaggio onirico. Ciauz.


1


Lo trovai in casa una mattina di agosto; spenta la sveglia e accesa la luce avevo posato lo sguardo sulla scrivania e eccolo lì, accanto alla lampada da tavolo, seminascosto dal portamatite. Erano le dieci e un quarto e, tanto per non smentire il tran tran di quei giorni, il risveglio aveva portato con sé il poco gradito omaggio dei postumi delle bevute notturne al Gang Bang. Ci avevo messo diverso tempo prima di trovare le forze per alzarmi, nonostante fossi molto incuriosito da quel coso di cui non ricordavo la provenienza.
   Lo esaminai alcuni secondi: era un parallelepipedo blu scuro tendente al viola, delle dimensioni di un libro tascabile. In effetti il primo pensiero era stato che si trattasse proprio di un libro.
   “E da dove salta fuori questo?” mi chiesi.
   Lo presi in mano e rimasi sbalordito dalla pesantezza; per essere un oggetto di quelle dimensioni pesava enormemente. Andai in bagno e lo posai sulla bilancia elettronica: 15,7 kg apparve sul quadrante.
   Trovai mamma in cucina con zia Paola e le chiesi cosa fosse quell’aggeggio misterioso.
   “Mamma, sei stata tu a mettere questo sulla mia scrivania?”
   “No, cos’è?”
   “Non lo so. Pensavo me lo sapessi dire. E tu zia Paola? Ne sai niente?”
   “No” replicò zia, “potrebbe essere un fermacarte. Ha un colore molto particolare…”
   “Vero” intervenne mamma. “Ho fatto la sarta tanti anni venendo a contatto con le tinte più diverse ma non ricordo di aver mai visto un colore simile.”
   Bevvi il caffé che mi porse zia Paola cercando di ricordare se quella notte, tra una birra e l’altra con Banana e Rasputin, mi fossi in qualche modo appropriato dell’oggetto pesante non identificato. Qualche volta mi era capitato di esagerare un po’ troppo con l’alcol e non ricordare nitidamente quello che avevo fatto o detto la sera prima, ma la notte in questione non avevo oltrepassato i limiti tanto da avere amnesie post sbronza. Riportai in camera il coso appoggiandolo sul comodino. Mi sedetti alla scrivania, accesi il pc e cercai di andare avanti con il mio romanzo, ma dopo due birre e cinque sigarette non ero ancora riuscito a buttare giù una riga.

mercoledì 21 settembre 2016

SULL'ORLO DI UN DIRUPO

Oggi posto la prefazione (del buon Gianluca Morozzi) e il primo capitolo di Sull'orlo di un dirupo (storie di calcio e di anarchia), libro che potrei definire il mio "bestseller", virgolettato perché parliamo pur sempre di poche centinaia di copie (quando venderò mille libri in libreria mi vedrete nudo e ubriaco a fingere di pregare sulla tomba di mio nonno Hank). Provo sempre una sorta di paura nel rileggere parti dei miei vecchi libri, forse perché temo di rimanerci male, di pensare "che cagata che ho scritto!" o "come l'ho scritta male!", ma d'altra parte bisogna pure - ed è una buona regola anche per la vita - rileggere il passato per scrivere bene il presente.
   Questo libro poi mi è molto caro, perché... beh se volete sapere (intuire) perché, leggetelo!




PREFAZIONE

di Gianluca Morozzi
  

Era il 1987, e sul campo metà in stile giungla e metà in terra battuta della Quercia era atterrato un pallone. Era atterrato qualche metro oltre alla quasi invisibile linea dell’aria, respinto alla disperata dai pugni del portiere. Su quel pallone, stretto nelle maglie giallo canarino della Longobarda, ristrette al primo lavaggio fin quasi al soffocamento, mi ero avventato io. Senza aspettare che toccasse terra per tentare il tiro di controbalzo, che su quel terreno pietroso il pallone sarebbe potuto schizzare dappertutto.
Sono passati venticinque anni, e da allora ho sentito un miliardo di suoni e di rumori. Ma il Thumm! del pallone che impattava con il collo del mio piede destro e il Flosccc! della rete che si gonfiava un attimo dopo ce li ho ancora qui, nelle orecchie, come se avessi colpito quel pallone questo pomeriggio.
Questo libro è per chi ha ancora quei bellissimi suoni nelle orecchie. E nel cuore.       




IL PIU’ GRANDE SOGNO DELLA MIA VITA
  

Quando leggo sul giornale di un ragazzo morto per overdose, quando sento per radio di un giovane suicida, quando vedo, ovunque, un essere umano che butta via la propria vita e il proprio talento, magari affogando l’una e l’altro in un bicchiere, non posso fare a meno di pensare: “Quello potevo essere io tanti anni fa!”
   Così, frugando nel passato, un’altra riflessione nasce di conseguenza, lasciandomi per certi versi ancora sbalordito: “E' un miracolo che uno come me, sensibile a livelli quasi patologici, sia sopravvissuto a quel terremoto.”
   Chi ha avuto grandi sogni da realizzare e si è svegliato un giorno con un fardello paralizzante sulla schiena potrà capire meglio di cosa parlo. E già che siamo all’inizio, voglio fare una premessa molto importante: questo libro parla di calcio, ma è come se parlasse di qualsiasi altro sport o passione. Questo libro è per chi ama il calcio, per chi lo odia e per chi se ne frega. Questo libro parla di VITA e le sue pagine gridano, in particolar modo ai giovani e ai loro genitori, una specie di implorazione: LEGGETEMI! Ne vale la pena, sempre che leggere abbia a che fare con la sofferenza piuttosto che col piacere.
   Il più grande sogno della mia vita è stato diventare un calciatore di serie A. D’altra parte il mio destino era in un certo senso segnato: papà era stato un calciatore di massima serie tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta e io volevo essere come lui, più forte di lui. Non so esattamente quando c’è stato l’imprinting ma già a sette otto anni quello era il mio obiettivo. La mattina andavo a scuola poi trascorrevo interi pomeriggi fino a ora di cena a palleggiare e tirare contro il muro davanti a casa, per la disperazione dei vicini.
   Nel 1984, a nove anni, il sogno comincia ad avere i contorni e i colori più definiti delle maglie di una squadra di calcio del paese che mi “arruola” tra le sue fila; disputo così il mio primo campionato e l’anno dopo un’altra squadra paesana, un po’ più blasonata, mi convince a cambiare casacca. Qui scoppia il finimondo perché la squadra che lasciavo era filocomunista, con sede al Bar Arci, mentre quella in cui approdavo era filodemocristiana, con sede al Bar Acli. Venni così “accusato” di alto tradimento e per qualche mese fui vittima di scherzi pesanti e attentati alla mia bicicletta. Allora non la vedevo così divertente, ma oggi non posso che sorridere a quei tempi guareschiani.
   Per tre anni giocai nelle giovanili della Libertas Castello d’Argile, poi venni notato dagli osservatori della Centese, società che viveva in quel momento il suo periodo d’oro nel professionismo (C1 e C2) e a quattordici anni compii un ulteriore passo verso la realizzazione del Grande Sogno.
   A Cento feci il primo anno nella categoria Giovanissimi quindi passai alla categoria Allievi nazionali ed è qui che sulla mia strada appare lo pseudoallenatore Rolando Pidocchi. Per un ragazzino timido e buono, incapace quasi di arrabbiarsi seppur determinato a raggiungere il suo scopo, trovarsi alla mercé del peggior psicopatico della provincia era praticamente come permettere a un prete pedofilo di fare dottrina a una classe di bambini nudi. Il Mister era quanto di peggio si potesse trovare sulla piazza in materia di educazione sportiva: insegnava a perdere tempo quando si vinceva, a fare falli tattici anche violenti, a simulare, a provocare. E aveva in antipatia chi non alzava mai la voce e faceva della correttezza la sua bandiera. Se poi questo ragazzino che parlava poco e si impegnava tanto non rideva neanche alle sue barzellette scadenti, la croce era piantata!
   Ricordo una volta che raccontò una delle sue freddure e io rimasi l’unico serio del gruppo: a fine allenamento mi chiamò nel suo spogliatoio e mi fece un cazziatone di mezz’ora. Un’altra volta subii una lunga lavata di capo perché portavo i capelli lunghi e spettinati e la società voleva che i suoi giovani tesserati fossero tutti belli e presentabili… Dev’essere nata allora la mia avversione leggermente provocatoria nei confronti delle “eleganti apparenze”.
   La mia pervicacia nel non volergliela dare vinta (o non potergliela dare vinta, dato che non è possibile cambiare la propria natura) aveva l’ulteriore conseguenza che spesso il Pidocchi non mi convocava nelle trasferte contro squadre per cui avrei fatto la strada a piedi da Cento pur di giocarci contro. Vedi Genoa e Juventus. Qualcuno potrebbe pensare che non mi convocasse perché c’era chi era più bravo e meritava più di me, in realtà se parliamo di impegno, serietà e talento erano pochi quelli che mi superavano in quella squadra, forse nessuno; agli occhi del Rolando avevo un solo grande difetto: ero troppo puro!
   Così soffrivo, in silenzio come purtroppo o per fortuna era nel mio carattere. Passai un anno da incubo, ma l’amore per il calcio era troppo grande per abbattermi, anche se indubbiamente qualcosa in me mutò. Chiosando ulteriormente sul periodo, ho sempre pensato che se non fossi incappato in un simile maniaco a quell’età, forse tutta la mia carriera sarebbe stata diversa, ma sono pensieri stupidi e inutili. L’ho capito molto tempo dopo, quando mi sono reso conto che proprio le sofferenze, le batoste, le violenze subite e le delusioni si possono trasformare in incredibili opportunità. Solo chi riesce a metabolizzare il dolore può vivere una vita spirituale e illuminata, spargendo a sua volta la luce che ha dentro. Da adulto (e io sono diventato adulto tardi se per adulto si intende uno che ha imparato a vivere seguendo la propria natura senza farsi travolgere dalle avversità) ho iniziato a vedere il mio passato da una prospettiva che non avrei mai immaginato potesse esistere: oggi, lo dico senza paura di passare per presuntuoso, sono diventato una delle persone più serene e illuminate che conosca; riesco persino a provare compassione per un Pidocchi, anzi, è anche grazie a lui che ho iniziato ad allenare bimbi sperando di trasmettere quell’amore per la vita e quella passione per il calcio che avevano cercato di negarmi tarpandomi le ali. Di questo però parlerò più avanti.
   Quello che ho appena scritto è un assist che mi faccio per introdurre il concetto di Filosofia del Calcio. Cos’è? E’ quel modo di pensare che mi fa trovare un paragone con il calcio in tutto ciò che ci accade quotidianamente. Ti impegni per ottenere un risultato lavorativo ma non lo ottieni? E’ come nel calcio: non ti demoralizzare e continua per la tua strada a testa alta e vedrai che prima o poi avrai grandi soddisfazioni. La tua donna ti tradisce? E’ come nel calcio: la tua squadra o i tuoi compagni prima o poi ti deluderanno per comportamenti poco corretti, ma tu sii sempre corretto e non tradire mai la tua squadra e i tuoi compagni. Ne vedrai i risultati. Qualcuno ti insulta per quello che fai, pensi o scrivi? E’ come nel calcio: invece che reagire e farti espellere, tramuta in forza e determinazione ancora maggiori l’insulto. Dimostrerai di essere un campione vero, anche come uomo. E così via. Potrei fare mille esempi. E’ sempre come nel calcio. E come nel calcio, se sai vincere e perdere con dignità, sarai sempre un fuoriclasse nella vita.


martedì 20 settembre 2016

VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE (INTRODUZIONE)

Un particolare accomuna l'introduzione al libro di racconti e vignette Volevo solo essere normale ad Appunti di un naufrago sentimentale e cioè il fatto che abbia sentito il bisogno di precisare che la molla che mi spinge a scrivere è una sorta di tensione esistenziale o di malessere o meglio ancora di idiosincrasia nei confronti di una massa in cui mi trovo anch'io fagocitato (soffocato). Beh, direi che non c'è niente di male ad essere ispirati dalla "sofferenza", anzi, un amico scrittore diceva sempre che "se fossi sereno e felice non avrei proprio nessun bisogno di scrivere." Ecco, ho bisogno di scrivere per tornare a respirare e non farmi travolgere dal dolore e dalla follia umana.



INTRODUZIONE


Un anno di racconti. Quando ho iniziato a scrivere quelli che compongono questa raccolta, nel febbraio del 2015, vivevo un periodo in cui avevo bisogno di ricaricare le pile. Ero stanco, debilitato dal dover sopportare quotidianamente la mediocrità umana. Ogni tanto capita.
   Cosa faccio quando capita? Scrivo. Scrivendo mi ricarico. È incredibile il potere energizzante della scrittura. Più scrivo più sono ispirato, o cambiando l’ordine degli addendi: più sono ispirato più scrivo. Il risultato non cambia. L’ispirazione aumenta man mano creo nuove storie.
   Devi sapere, amico lettore, che c’è stato un tempo in cui ho sofferto molto, un tempo dove la mia fragilità ha rischiato di uccidermi, un tempo in cui mi chiedevo perché fossi così sbagliato; per il mio stato di diverso (con accezione negativa) incolpavo la sfiga, la natura, l’ambiente, le persone, i miei cari… Poi un giorno, mentre percorrevo la strada della vita, è successo qualcosa: l’illuminazione! Non è avvenuta di punto in bianco, casualmente; ci sono voluti anni, esperienze, ferite, cicatrici, riflessioni, meditazioni e metabolizzazioni per far sì che si creassero i presupposti per l’illuminazione. Ci sono voluti cuore, mente e spirito affinché la luce potesse accendersi. Quel giorno (continuo a chiamarlo giorno ma non è identificabile in un momento temporale preciso) HO CAPITO. Se però mi chiedi “cos’hai capito?” è inutile che continui a leggere. Se mi poni una domanda simile è ovvio che non hai capito nulla e se cercassi di risponderti dimostrerei di non aver capito nulla neanch’io. Ti basti sapere che quel giorno X ho smesso di dare colpe, anche a me stesso. Ho iniziato a vedermi da una prospettiva diversa, illuminato da una luce diversa. Gli enormi difetti che avevo si sono amalgamati con i pregi facendomi scorgere Simone nella sua interezza (completezza?!), non più auto-percepito come una sorta di handicappato, bensì come un uomo unico, diverso in senso positivo questa volta. Certo, solo, tanto solo, ma non può essere altrimenti  in questo mondo di persone omologate, schiavizzate, le cui capacità mentali sono manipolate appena escono dal grembo materno.
   Sulla Terra mi sono sempre sentito un alieno. Sento l’amore della gente che mi è vicina e spero di trasmettergli il mio, ma  la solitudine è una presenza costante. Intanto scrivere mi tiene compagnia, mi riempie e mi fa sentire vivo. Che sia un bravo scrittore o meno me ne sbatto la fava. Scrivo ergo esisto, anche se, tornando al discorso iniziale riguardante SCRITTURA+ISPIRAZIONE non è per niente facile essere scrittori entusiasti di questi tempi. Se sei uno sconosciuto e non hai sponsor chi ti caga? In un mondo dove l’unica cosa che la maggior parte della gente legge sono le quattro righe di un post di Facebook – sforzandosi per giunta, perché già cinque sono troppe – scrivere è come vendere bibbie a Baghdad. Pochi leggono autori senza un nome, quindi per farsi leggere bisogna darsi da fare. Io cerco di promuovermi tramite internet, presentazioni, bancarelle. Lo faccio con passione perché credo nelle mie opere, nelle parole che scrivo, nei concetti che tento di esprimere. Vado fiero delle mie perle perché penso che abbiano un certo valore. Però, metaforicamente e poco umilmente parlando, mi sembra sempre di gettare perle ai porci. Se stai leggendo questo, amico, potresti, mi auguro, non essere un porco…
   I trenta racconti che compongono la raccolta – scritti nell’arco di circa dodici mesi partendo da febbraio 2015, come ho detto – sono inseriti in ordine cronologico, dal primo all’ultimo. Avevo pensato di mettere anche vecchie novelle, ma oltre ad essere reperibili qua e là in internet, ho ritenuto non avesse senso aggiungerle in quanto rappresentanti di un Simone “vecchio”. In Volevo solo essere normale è racchiuso lo stile, l’essenza e la maturità del Simone attuale, un Simone “nuovo” e sempre più rinnovabile.
   Per quanto riguarda le venti vignette invece, scarabocchiate negli ultimi anni, ho optato per non inserirle in ordine temporale, ma anche loro hanno un senso e non sono meno importanti dei racconti, anzi, forse lo sono maggiormente perché questi sfoghi visivi e visionari sono come sogni, sogni da interpretare. E saper interpretare il mondo onirico illumina la strada nel mondo reale.
   Che (D)io vi illumini!

Castello d’Argile, gennaio 2016
   


lunedì 19 settembre 2016

L'ARTE DELLA MORTE

Vi omaggio del prologo e del primo capitolo del breve romanzo (o lungo racconto, che dir si voglia) intitolato L'arte della morte (Edizioni Il Foglio), opera pretenziosa che voleva riportare in vita almeno qualche cervello zombificato. In pratica ho chiesto aiuto alla Morte per capire il senso della Vita. Cosa ho capito? Mah, come tutto ciò che sconfina in mondi paralleli, è estremamente difficoltoso da spiegare. Per adesso accontentatevi di un libretto...



Nascentes morimur, finisque ab origine pendet
(Marco Manilio)
  


PROLOGO


“Caro vecchio Artù, lo sapevo che avresti sedotto la morte. Lo sapevo che te ne saresti andato come un attore navigato quando si inchina al pubblico in platea dopo aver dato grande prova di sé nel grande spettacolo della vita. Solo che tu non sei tornato sul palco a ricevere gli applausi e a salutare la gente che ti acclamava.
   Il tuo pubblico erano gli amici, i clienti del bar, i bimbi della scuola calcio. Trascorrere un’ora con te poteva cambiare la vita di una persona. In meglio si intende. Sì, avevi questo potere, non esagero.
   Tu non credevi in Dio, credevi in Io, nella forza dell’anima. E che anima! La potevo persino vedere standoti accanto. Luccicava. Adesso la sento, la respiro. È entrata a far parte della Grande Anima dell’Universo. Sei vivo nell’eternità mitico Artù; te lo dice questo zombie di Willy.
   Torno al bar a farmi un Negroni, per brindare a te e all’anima de li mortacci nostri. Ah ah ah ah ah ah ah.”


1


La vita di Arturo Rea svoltò fondamentalmente nell’arco di pochi giorni. Gli episodi che la determinarono non furono casuali, bensì l’accumularsi di gocce in un metaforico bicchiere, che proprio in quei giorni tracimò. Da quel momento in poi la direzione che avrebbe preso la sua esistenza sarebbe stata chiara e definitiva.
   Arturo Rea era un signore di cinquant’anni in leggero sovrappeso, un sovrappeso causato più che dal cibo o dalla vita sedentaria, che non aveva mai condotto, da una leggermente smodata passione per gli alcolici; passione che nonostante tutto – nonostante lavorasse in un bar e frequentasse praticamente solo alcolisti – riusciva a gestire senza lasciarsi sopraffare. Era il classico personaggio di cui si può tranquillamente affermare che “regge l’alcol più di una tavolata di beoni in festa”. Aveva due grandi occhi azzurri e portava un paio di occhialini tondi per ovviare a un recente calo della vista. I lunghi capelli ormai completamente bianchi erano legati in una fluente coda di cavallo, mentre i baffi alla Charles Bronson modello “giustiziere della notte” erano neri neri, tanto che più di un cliente del bar gli domandava se si tingesse i capelli di chiaro o i baffi di scuro. Era alto più di un metro e ottanta e nel complesso non era un uomo sgradevole, anzi, lo si poteva definire un bell’uomo, ma profonde rughe sulla fronte e due accentuate occhiaie livide lo facevano sembrare un uomo stanco. O forse lo era davvero…
   Aveva un tic abbastanza inquietante il buon Arturo. Con una frequenza che aumentava quando ascoltava banalità dai suoi interlocutori, spalancava gli occhi come se gli fosse apparso improvvisamente davanti un fantasma. Chi gli parlava per la prima volta poteva rimanerne impressionato d’acchito, poi ci faceva l’abitudine, soprattutto se era dedito a sparare corbellerie e ovvietà a raffica.
   Come detto Arturo faceva il barista nel bar di famiglia. Ci lavorava da venticinque anni, dopo aver abbandonato l’università, facoltà di filosofia. La filosofia, si sa, raramente dà il pane, e siccome il padre, che lavorava nel bar, morì, dovette lasciare gli studi per aiutare la madre che peraltro soffriva di gravi disturbi articolari. Poco dopo lo affiancò a banco il fratello minore Alfredo, che ancora faceva coppia con Arturo al Barfly di Castello d’Argile dopo cinque lustri.
   Mentre Alfredo era sposato e aveva un figlio adolescente, Arturo non aveva prole ed era single da un paio d’anni. Prima aveva avuto tre o quattro relazioni piuttosto lunghe, l’ultima delle quali con Lucilla, durata poco meno di sette anni. Lucilla era un’assistente sociale di Bologna e si era trasferita nell’appartamento di Arturo sopra al bar da poco, quando la loro relazione aveva iniziato a scricchiolare. Lei era fortemente innamorata di lui; lui le voleva bene, ma le aveva chiesto di trasferirsi a casa sua solo per un calcolo cinico e approssimativo: in vista dei 50, pensava che “sistemarsi” gli avrebbe dato maggiore serenità in futuro. Magari presto le avrebbe chiesto di sposarlo se fosse durata, ma un giorno trovò Lucilla che lo aspettava in salotto con le valigie pronte.
   “Me ne vado Arturo” aveva detto. “Ho quarantadue anni e posso ancora provare qualche gioia nella vita. Sento che con te molte porte sono chiuse e non sarò mai in grado di aprirle, perché non mi ami. C’è stima e affetto tra di noi, ma non mi bastano più. E poi, volersi bene a parte, non hai più quella scintilla nello sguardo che avevi quando ti ho conosciuto. Addio.”
   Arturo, appena salito dal bar, l’aveva ascoltata leggermente intontito dai fumi dell’alcol e non aveva detto una parola; Lucilla aveva preso la sua roba, lo aveva superato senza guardarlo e sulla porta aveva detto:
   “Vedi?! Non dici nulla neppure in un momento come questo. Non si parla neanche più tra noi, sei apatico, un morto vivente. Ti auguro almeno di tornare a sorridere.”
   Eppure di motivi per sorridere Arturo ne aveva. Il lavoro di barista gli piaceva e il Barfly era rinomato in tutto il circondario, il più frequentato della zona; al suo interno (o all’esterno, nel periodo estivo) organizzava da sempre piccoli concerti, reading, spettacoli di cabaret e feste con qualsiasi pretesto. Si divertiva e tutti lo stimavano, soprattutto perché sapeva offrire una parola (e una birra) di conforto a chiunque avesse un problema: il passato di studioso di filosofia veniva a galla in quei momenti per fargli dispensare perle di saggezza agli affezionati clienti.
   Oltre all’appagante lavoro al bar, Arturo aveva realizzato uno dei sogni della sua vita: aprire una scuola calcio per bambini, in particolare disadattati o con problemi di varia natura. Lui non era mai stato appassionato di calcio professionistico e conseguentemente non aveva mai tifato per nessuna squadra, se non per il Bologna in un breve periodo, influenzato dagli avventori tifosi che seguivano le partite dei rossoblù prima alla radio poi, in tempi più recenti, sul maxischermo del bar. Era schifato e nauseato dagli insegnamenti deviati che giungevano più o meno direttamente ai giovani dal calcio ad alti livelli, ma riteneva che non ci fosse nulla di più educativo e filosofico, lui che aveva studiato con passione la materia per anni, del calcio. Così, a trent’anni, approfittando di una vincita al totocalcio grazie a una schedina giocata con il fratello, mettendosi in società con lo stesso Alfredo (che di calcio e Bologna era grande appassionato), fondò e aprì la SCAR, Scuola Calcio Aristide Rea, dedicata al padre che negli anni ’50 era stato presidente della locale squadra di calcio.
   Alla SCAR potevano iscriversi gratuitamente tutti i bambini dai 6 ai 12 anni che non potevano permettersi di pagare l’iscrizione in altre società. Arturo andava a parlare personalmente con le famiglie “difficili” per chiedere che i figli andassero a giocare alla SCAR. Il suo scopo, seppure l’impresa fosse tutt’altro che facile, era quello di “salvare” i bambini dalle grinfie degli adulti, lasciando un buon margine di speranza affinché diventassero uomini migliori grazie anche ai valori sani del calcio più vero.
   Per portare avanti il progetto SCAR, all’inizio Arturo aveva fatto grandissimi sacrifici a livello di tempo ed energie spesi. Con i soldi del 13 miliardario aveva comprato un terreno alle porte del paese e vi aveva fatto costruire due campi, spogliatoi e un’aula-ludoteca-biblioteca. L’anno in cui inaugurò la SCAR si iscrissero una ventina di ragazzini; ad allenare lo aiutavano come volontari due amici, in più dava un piccolo rimborso spese ad un altro amico, ex giocatore del Bologna, che insegnava calcio ai più grandicelli. Anche Alfredo dava una mano sul campo quando non si occupava dell’amministrazione e della logistica. In pochi anni i bambini erano quadruplicati. La SCAR si era fatta un nome e anche il Comune di Castello d’Argile insieme ad alcuni imprenditori locali la sovvenzionavano annualmente. Molti ex allievi, una volta cresciuti, si erano offerti di fare volontariato alla scuola calcio. Dopo vent’anni Arturo era fiero di ciò che aveva costruito annaffiando quotidianamente le radici del suo sogno. Aveva salvato molti giovanissimi, offrendo loro la speranza in un futuro migliore.

   Eppure Arturo Rea, da un po’ di tempo, non era più l’Arturo Rea entusiasta di qualche anno addietro. 

Premessa agli Appunti.

Orco cane! Mi sono accorto solo ora che i racconti "eronici" che volevo inserire dopo Come persi la verginità appaiono quasi tutti nel blog http://tonystantuffo.myblog.it, con spazi tra una riga e l'altra che non so perché non sono riuscito a sistemare. Non ricordavo più di avere messo in rete i vari Narciso Boccadoro, La ricotta della Teresa, Il mito di Stantuffo, L'amore ai tempi di Youporn, Il Trombamogli, eccetera. Magari, avendoli rivisti e corretti per l'edizione cartacea di Appunti di un naufrago sentimentale (pubblicata con Il Foglio Letterario), un giorno li riproporrò ancora qui nella nuova versione, ma per adesso non mi sembra il caso (eventualmente Tony vi aspetta nel suo blog); ripropongo qui sotto solo la premessa del libro. Buona lettura.



PREMESSA 

Avete mai visto un uomo trasformarsi in libro? Gregor Samsa, protagonista de “La metamorfosi” di Kafka, si trasforma in insetto, ma Gregor Samsa, oltre ad essere alter ego del buon Franz, è  personaggio di fantasia. Io no, io sono reale, sono qui che scrivo le parole che state leggendo, quindi esisto, anche se dovessi essere già morto. E mentre scrivo avviene questa incredibile mutazione: le mani diventano propaggini di una penna, la gabbia toracica si apre ed escono fogli, la testa prende le sembianze della copertina, nelle vene sento scorrere inchiostro; ho appena avuto un conato di vomito e sono fuoriuscite parole. Un mostro? No, un libro ho detto, anzi, IL libro. Qui dentro ci sono io allo stato puro, c’è la mia essenza, il mio spirito. Mai più scriverò un’opera così rappresentativa di ciò che sono.
   I protagonisti principali sono i sentimenti, il sesso, l’amore. L’ispirazione mi ha colto durante uno di quei rari periodi “catartici” in cui mi sono innamorato. Non è capitato spesso, ma quando è capitato il vostro qui presente autore può affermare di aver perso completamente l’uso della ragione, a scapito di quell’istintività sentimentale che da tempi lontani viene simboleggiata con la parola cuore.
   Con questo libro ho voluto intraprendere il viaggio più importante di tutti quelli che ho fatto finora, materiali, mentali o letterari. Sono partito dal presente perché l’input me lo ha dato un’esperienza recente, ma sono dovuto per forza tornare nel passato per ritrovare quegli indizi e segnali che mi dovranno guidare in futuro.
   Il libro non segue una trama precisa; potrei definirlo un mix di autobiografia, psicologia, filosofia, sessuologia, diario, racconto erotico, saggistica, romanzo di formazione. Ho cercato di amalgamare al meglio ogni ingrediente affinché ne uscisse un insieme fluido, interessante e divertente oltre che illuminante.
   Nonostante mi ritenga, a torto o a ragione, una persona piuttosto strana, contrastata, complessa e complessata, i sentimenti e le esperienze che descrivo fanno parte del bagaglio umano universale; vi ritroverete anche voi in questo mondo gioioso e doloroso, a volte spietato, a volte entusiasmante, sempre e comunque fruttuoso per chi quei frutti sa coltivare, cogliere e assaporare.
   Mentre scrivo questa prefazione sono nuovamente sereno, ma quando ho iniziato a buttar giù le prime parole e i primi appunti mi trovavo ancora in una condizione di turbamento che giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, è evaporata. Man mano mi trasformavo in libro, anche la mia forza aumentava.
   Un’amica, una volta superato il momentaccio, mi disse: “Simone, spero di non vederti mai più innamorato, perché ti riduci in uno stato pauroso.”
   Forse voleva dire “pietoso”, ma poco importa, il succo non cambia: l’amore, pardon, l’innamoramento mi trasfigura (l’amore mi completerebbe).
   All’amica detti una risposta che ritengo emblematica del mio essere, essere anche artista.
   “Vedi” dissi, “a volte tribolo, soffro, mi sento un animale in gabbia, ma sai una cosa? Queste violente scariche emotive mi fanno sentire vivo!”
   Mi nutro di emozioni violente e più tali emozioni mi fanno soffrire, più ne esco rafforzato. E come vedrete, ispirato.
   Pur consapevole che, come scrisse Mario Vargas Llosa, “non si scrivono romanzi per raccontare la vita ma per trasformarla, aggiungendovi qualcosa”, se fossi un pittore e il libro che sto scrivendo un quadro, mi starei cimentando in un autoritratto più vero del reale. Impresa ardua e presuntuosa, ma qual è il fine ultimo dell’artista? Immortalare la propria anima. Questo libro è la mia anima.



COME PERSI LA VERGINITA'

Ok, iniziamo con un racconto "eronico" estratto da Appunti di un naufrago sentimentale. Il libro è una storia autobiografica, intervallata da opinioni, teorie, pensieri e racconti. Questi ultimi (alcuni) saranno postati qui di seguito. Mi dicono che fanno ridere e riflettere. Mi sembrano due ottimi motivi per vedere se siete d'accordo con questi giudizi.



COME PERSI LA VERGINITA'
(racconto)

Zio Lando faceva il giardiniere-tuttofare nel convento delle monache ormonine di Cafarnao. A quindici anni, durante il periodo estivo, ogni tanto lo andavo ad aiutare per racimolare qualche spicciolo da reinvestire poi nell’acquisto di giornaletti pornografici e videocassette di Selen, che proprio in quegli anni veniva da me assurta a icona incontrastata dell’hard mondiale. Ricordo quelle giornate assolate come fosse ieri. In particolare ricordo quel giorno.
   Zio mi aveva lasciato solo nell’immenso giardino del convento perché aveva altri lavori da svolgere presso la parrocchia di San Rocco a Babele. Avevo appena finito di sfalciare il prato e stavo mettendo la miscela nel decespugliatore per rifinire la base del recinto e le zone inaccessibili al tosaerba, quando la Materiora (così si chiama la capa delle Ormonine) mi chiamò per bere un goccio di limonata fresca. La Gran Suora (così la chiamavo io) mi chiese poi, mentre mi porgeva il bicchiere ghiacciato, se fossi stato così gentile da rimpiazzare una decina di crocifissi vecchi con dei nuovi nelle camere delle monache. Risposi che lo avrei fatto subito volentieri, anche perché fuori c’erano quaranta gradi all’ombra mentre all’interno del convento si godeva un fresco delizioso.
   Le camere erano tutte singole e arredate in modo spartano: un letto, un armadio, una piccola scrivania con una sedia e alle pareti solo il vecchio crocifisso che essendo attaccato a circa tre metri d’altezza dovevo sostituire servendomi di uno scaletto. Cominciai dalla stanza della Materiora, del tutto simile alle altre se non per una piccola libreria che la distingueva. La Gran Suora seguiva le operazioni dabbasso, mettendomi un po’ in soggezione per lo sguardo severo e la mancanza di dialogo. Ad un tratto, dopo aver sostituito crocifissi in due o tre stanze, sopraggiunse un’altra monaca.
   “Materiora” disse, “i fratelli Orovitz delle Pompe Funebri Orovitz l’attendono giù nel salone principale.”
   “Uh molto bene suor Monica!” esclamò la capa accennando un sorriso su quel volto arcigno e rugoso che sembrava scolpito nella pietra. “Avranno portato l’obolo per la festa di Santa Gertrude. Stia qui con il nostro Tony che io scendo. Non ne avrà per molto.”
   La monaca che ora controllava il mio operato sembrava avere dai trenta ai quarant’anni e non era affatto male. Mi chiesi chissà quale trauma infantile non metabolizzato l’avesse trasformata in pinguino timorato di Dio e proprio mentre cercavo di immaginarmi il passato della monaca Monica, un piolo della scala cedette cosicché mi ritrovai disteso sull’impiantito dietro al letto. La suora accorse spaventata in mio soccorso. Ero supino e immobile mentre cercavo di capire se mi ero fatto male; fortunatamente ero integro, ma fu l’”integrità” di Monica a subire un duro colpo: spinta da un impulso troppo a lungo represso, mi baciò con impeto. Quando si staccò dalle mie labbra era paonazza. Pensai che sarebbe scappata in preda alla vergogna a confessare a Dio l’atto impuro, invece la bramosia l’accecò e si accanì sulla mia patta, prendendo in bocca il pene turgido come una zanna d’avorio. Sembrava non fare nemmeno caso all’olezzo da pesce marcio che emanava il mio attrezzo dopo ore di lavoro sotto il sole cocente. Ad ogni modo dopo un paio di minuti di assatanato su e giù, lo aveva deterso a dovere. Ogni tanto lo guardava quasi commossa, neanche stesse contemplando il crocifisso che giaceva accanto a me e lì finito nella caduta. Quello che stava accadendo non sembrava reale, ma ciò che accadde poco dopo non mi parve proprio vero: la suora sollevò il suo gonnellone da pinguino e si fece penetrare. Io rimasi in silenzio insieme a lei, anche per captare rumore di passi nel corridoio nel caso fosse passata la Materiora o qualche altra monaca. Ad un tratto Monica parve gemere, ma proprio sul più bello si alzò e sistemandosi velocemente scappò via. Rimasi a finire il lavoro di mano spruzzando una fiumana di sperma sotto al letto. Finii di attaccare i restanti crocifissi salendo sul pericolante e pericoloso scaletto e tornai al mio lavoro in giardino.
   Mentre rifinivo la siepe mi chiesi cosa avesse fatto fuggire suor Monica a quel modo: aveva forse sentito qualche rumore in avvicinamento? Non lo seppi mai, anche perché non la rividi più, nemmeno le altre volte in cui mi trovai ad aiutare zio Lando. Molti anni dopo però mi diedi una risposta: nel momento in cui stava per provare l’orgasmo si era spaventata. Era un evento troppo grande per lei che aveva passato una vita di fedeltà e castità sacrificando la propria femminilità a un Dio che nemmeno si era mai presentato. L’orgasmo avrebbe distrutto tutte le sue convinzioni e probabilmente avrebbe ucciso quel Dio che rappresentava la sua rugginosa ancora di salvezza nel tempestoso mare della vita. Non aveva mai immaginato un’altra strada che non fosse quella della fede più acquiescente e ora che l’aveva intravista non aveva voluto percorrerla. Preferiva rimanere timorata di Dio piuttosto che… vivere.

   Quel giorno, tornando a casa, pensai fischiettando che era proprio vero quello che diceva sempre ironicamente zio, e cioè che l’abito non fa la monaca. Io infatti mi ero fatto la Monica, e questo è il racconto di come persi la verginità. Da non crederci, vero?
Oggi 19 settembre 2016 creo questo nuovo blog che utilizzerò esclusivamente per parlare delle mie opere edite ed inedite, postando parti di libri, incipit, racconti, ecc. sperando di catturare l'attenzione di qualche appassionato di storie da leggere; temo stiate diventando una specie in estinzione, ma se siete capitati qui magari c'è ancora speranza per me (ah quanto sarebbe bello campare di libri!) e per l'umanità...
Lascio "decantare" un attimo questo primo post poi apro le danze. a presto.