lunedì 19 settembre 2016

L'ARTE DELLA MORTE

Vi omaggio del prologo e del primo capitolo del breve romanzo (o lungo racconto, che dir si voglia) intitolato L'arte della morte (Edizioni Il Foglio), opera pretenziosa che voleva riportare in vita almeno qualche cervello zombificato. In pratica ho chiesto aiuto alla Morte per capire il senso della Vita. Cosa ho capito? Mah, come tutto ciò che sconfina in mondi paralleli, è estremamente difficoltoso da spiegare. Per adesso accontentatevi di un libretto...



Nascentes morimur, finisque ab origine pendet
(Marco Manilio)
  


PROLOGO


“Caro vecchio Artù, lo sapevo che avresti sedotto la morte. Lo sapevo che te ne saresti andato come un attore navigato quando si inchina al pubblico in platea dopo aver dato grande prova di sé nel grande spettacolo della vita. Solo che tu non sei tornato sul palco a ricevere gli applausi e a salutare la gente che ti acclamava.
   Il tuo pubblico erano gli amici, i clienti del bar, i bimbi della scuola calcio. Trascorrere un’ora con te poteva cambiare la vita di una persona. In meglio si intende. Sì, avevi questo potere, non esagero.
   Tu non credevi in Dio, credevi in Io, nella forza dell’anima. E che anima! La potevo persino vedere standoti accanto. Luccicava. Adesso la sento, la respiro. È entrata a far parte della Grande Anima dell’Universo. Sei vivo nell’eternità mitico Artù; te lo dice questo zombie di Willy.
   Torno al bar a farmi un Negroni, per brindare a te e all’anima de li mortacci nostri. Ah ah ah ah ah ah ah.”


1


La vita di Arturo Rea svoltò fondamentalmente nell’arco di pochi giorni. Gli episodi che la determinarono non furono casuali, bensì l’accumularsi di gocce in un metaforico bicchiere, che proprio in quei giorni tracimò. Da quel momento in poi la direzione che avrebbe preso la sua esistenza sarebbe stata chiara e definitiva.
   Arturo Rea era un signore di cinquant’anni in leggero sovrappeso, un sovrappeso causato più che dal cibo o dalla vita sedentaria, che non aveva mai condotto, da una leggermente smodata passione per gli alcolici; passione che nonostante tutto – nonostante lavorasse in un bar e frequentasse praticamente solo alcolisti – riusciva a gestire senza lasciarsi sopraffare. Era il classico personaggio di cui si può tranquillamente affermare che “regge l’alcol più di una tavolata di beoni in festa”. Aveva due grandi occhi azzurri e portava un paio di occhialini tondi per ovviare a un recente calo della vista. I lunghi capelli ormai completamente bianchi erano legati in una fluente coda di cavallo, mentre i baffi alla Charles Bronson modello “giustiziere della notte” erano neri neri, tanto che più di un cliente del bar gli domandava se si tingesse i capelli di chiaro o i baffi di scuro. Era alto più di un metro e ottanta e nel complesso non era un uomo sgradevole, anzi, lo si poteva definire un bell’uomo, ma profonde rughe sulla fronte e due accentuate occhiaie livide lo facevano sembrare un uomo stanco. O forse lo era davvero…
   Aveva un tic abbastanza inquietante il buon Arturo. Con una frequenza che aumentava quando ascoltava banalità dai suoi interlocutori, spalancava gli occhi come se gli fosse apparso improvvisamente davanti un fantasma. Chi gli parlava per la prima volta poteva rimanerne impressionato d’acchito, poi ci faceva l’abitudine, soprattutto se era dedito a sparare corbellerie e ovvietà a raffica.
   Come detto Arturo faceva il barista nel bar di famiglia. Ci lavorava da venticinque anni, dopo aver abbandonato l’università, facoltà di filosofia. La filosofia, si sa, raramente dà il pane, e siccome il padre, che lavorava nel bar, morì, dovette lasciare gli studi per aiutare la madre che peraltro soffriva di gravi disturbi articolari. Poco dopo lo affiancò a banco il fratello minore Alfredo, che ancora faceva coppia con Arturo al Barfly di Castello d’Argile dopo cinque lustri.
   Mentre Alfredo era sposato e aveva un figlio adolescente, Arturo non aveva prole ed era single da un paio d’anni. Prima aveva avuto tre o quattro relazioni piuttosto lunghe, l’ultima delle quali con Lucilla, durata poco meno di sette anni. Lucilla era un’assistente sociale di Bologna e si era trasferita nell’appartamento di Arturo sopra al bar da poco, quando la loro relazione aveva iniziato a scricchiolare. Lei era fortemente innamorata di lui; lui le voleva bene, ma le aveva chiesto di trasferirsi a casa sua solo per un calcolo cinico e approssimativo: in vista dei 50, pensava che “sistemarsi” gli avrebbe dato maggiore serenità in futuro. Magari presto le avrebbe chiesto di sposarlo se fosse durata, ma un giorno trovò Lucilla che lo aspettava in salotto con le valigie pronte.
   “Me ne vado Arturo” aveva detto. “Ho quarantadue anni e posso ancora provare qualche gioia nella vita. Sento che con te molte porte sono chiuse e non sarò mai in grado di aprirle, perché non mi ami. C’è stima e affetto tra di noi, ma non mi bastano più. E poi, volersi bene a parte, non hai più quella scintilla nello sguardo che avevi quando ti ho conosciuto. Addio.”
   Arturo, appena salito dal bar, l’aveva ascoltata leggermente intontito dai fumi dell’alcol e non aveva detto una parola; Lucilla aveva preso la sua roba, lo aveva superato senza guardarlo e sulla porta aveva detto:
   “Vedi?! Non dici nulla neppure in un momento come questo. Non si parla neanche più tra noi, sei apatico, un morto vivente. Ti auguro almeno di tornare a sorridere.”
   Eppure di motivi per sorridere Arturo ne aveva. Il lavoro di barista gli piaceva e il Barfly era rinomato in tutto il circondario, il più frequentato della zona; al suo interno (o all’esterno, nel periodo estivo) organizzava da sempre piccoli concerti, reading, spettacoli di cabaret e feste con qualsiasi pretesto. Si divertiva e tutti lo stimavano, soprattutto perché sapeva offrire una parola (e una birra) di conforto a chiunque avesse un problema: il passato di studioso di filosofia veniva a galla in quei momenti per fargli dispensare perle di saggezza agli affezionati clienti.
   Oltre all’appagante lavoro al bar, Arturo aveva realizzato uno dei sogni della sua vita: aprire una scuola calcio per bambini, in particolare disadattati o con problemi di varia natura. Lui non era mai stato appassionato di calcio professionistico e conseguentemente non aveva mai tifato per nessuna squadra, se non per il Bologna in un breve periodo, influenzato dagli avventori tifosi che seguivano le partite dei rossoblù prima alla radio poi, in tempi più recenti, sul maxischermo del bar. Era schifato e nauseato dagli insegnamenti deviati che giungevano più o meno direttamente ai giovani dal calcio ad alti livelli, ma riteneva che non ci fosse nulla di più educativo e filosofico, lui che aveva studiato con passione la materia per anni, del calcio. Così, a trent’anni, approfittando di una vincita al totocalcio grazie a una schedina giocata con il fratello, mettendosi in società con lo stesso Alfredo (che di calcio e Bologna era grande appassionato), fondò e aprì la SCAR, Scuola Calcio Aristide Rea, dedicata al padre che negli anni ’50 era stato presidente della locale squadra di calcio.
   Alla SCAR potevano iscriversi gratuitamente tutti i bambini dai 6 ai 12 anni che non potevano permettersi di pagare l’iscrizione in altre società. Arturo andava a parlare personalmente con le famiglie “difficili” per chiedere che i figli andassero a giocare alla SCAR. Il suo scopo, seppure l’impresa fosse tutt’altro che facile, era quello di “salvare” i bambini dalle grinfie degli adulti, lasciando un buon margine di speranza affinché diventassero uomini migliori grazie anche ai valori sani del calcio più vero.
   Per portare avanti il progetto SCAR, all’inizio Arturo aveva fatto grandissimi sacrifici a livello di tempo ed energie spesi. Con i soldi del 13 miliardario aveva comprato un terreno alle porte del paese e vi aveva fatto costruire due campi, spogliatoi e un’aula-ludoteca-biblioteca. L’anno in cui inaugurò la SCAR si iscrissero una ventina di ragazzini; ad allenare lo aiutavano come volontari due amici, in più dava un piccolo rimborso spese ad un altro amico, ex giocatore del Bologna, che insegnava calcio ai più grandicelli. Anche Alfredo dava una mano sul campo quando non si occupava dell’amministrazione e della logistica. In pochi anni i bambini erano quadruplicati. La SCAR si era fatta un nome e anche il Comune di Castello d’Argile insieme ad alcuni imprenditori locali la sovvenzionavano annualmente. Molti ex allievi, una volta cresciuti, si erano offerti di fare volontariato alla scuola calcio. Dopo vent’anni Arturo era fiero di ciò che aveva costruito annaffiando quotidianamente le radici del suo sogno. Aveva salvato molti giovanissimi, offrendo loro la speranza in un futuro migliore.

   Eppure Arturo Rea, da un po’ di tempo, non era più l’Arturo Rea entusiasta di qualche anno addietro. 

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