lunedì 3 ottobre 2016

FAR WEST LAZIO - Il volo di Uccellino

Oggi vi propongo le prime pagine del libro Far west Lazio - Il volo di Uccellino, libro che racchiude una sentita intervista fatta da me a mio padre sul "calcio che fu" intervallata da considerazioni personali sul "calcio che è", sulla società alla deriva e sulla mia vita di predestinato. A cosa? Ai poster (!) l'ardua sentenza. 
Vi ricordo che ho copiato il testo da una versione "word" che non era quella definitiva; al massimo, forse, cambia solo qualche parola e c'è qualche refuso non corretto rispetto alla versione pubblicata. 




PREFAZIONE

di Pier Paolo Manservisi


Simone mi ha chiesto di scrivere la prefazione. Non sono molto pratico di queste cose, ma avendo in casa uno scrittore, eventualmente mi correggerà qualche errore e sistemerà la sintassi.
   Giusto ieri ho saputo che a maggio (il 12 per la precisione, data storica per i colori biancocelesti) ci sarà la festa-anniversario per i 40 anni dal primo scudetto laziale. Me lo ha detto il mio ex compagno di squadra, il portiere Felice Pulici dopo che una radio romana “aquilotta” mi aveva telefonato per una chiacchierata in diretta. Durante quei dieci minuti on air abbiamo ricordato i vecchi tempi e io ne ho approfittato, cogliendo la palla al balzo: ho fatto un po’ di promozione a quest’opera che Simone ha da poco terminato, dicendo al pubblico in ascolto che presto uscirà un libro che parla di quella nostra incredibile Lazio.
   “Mi raccomando, portatemene una copia” ha detto Felice.
   “Certamente” ho risposto con voce velata di orgoglio per il lavoro di mio figlio, che so essere un altro importante tassello, non solo della sua crescita letteraria, anche del suo percorso morale e spirituale di uomo libero.
   Ora speriamo che il libro sia pronto per quella data. Manca poco più di un mese e mezzo; Simone dice che ce la faremo, è consapevole e fiducioso del valore (perlomeno affettivo) di quello che ha scritto, lo vedo entusiasta. Ancor più entusiasta mi è sembrato quando gli ho detto di Roma, della festa, dell’Olimpico, dentro al quale non è mai stato. So quanto ci tenga a saldare i conti con il passato, so quanto desideri mettere piede nell’“arena dei ricordi”…
   Queste celebrazioni cadono a fagiolo, come si suol dire, sono una coincidenza che mi auguro di buon auspicio per il libro, per i sogni e i traguardi futuri del suo autore.
   Torneremo molto probabilmente a Roma dunque. Così come si dice che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto, tutti torniamo sempre nei luoghi chiave del passato, luoghi a volte metafisici, luoghi dove l’anima ha messo radici. Si torna perché, come dice Simone, anche senza volerlo la vita è una spirale di cerchi che via via si ingrandiscono (qualcuno per la verità percorre la strada opposta, rimpicciolendoli…): per ingrandirsi devono tornare indietro e prendere energia dai cerchi più piccoli (ovvero il passato, la nostra storia). Il ritorno al passato è spesso il trampolino per fare il grande salto in un futuro evoluto.
   Ero già tornato allo Stadio Olimpico nel 2000 per il Centenario della Lazio (fondata nel 1900), dopo che la squadra aveva appena vinto il secondo scudetto. Fu una grande emozione e anche questa volta non sarà da meno. Rivedrò i miei vecchi compagni. Ricorderemo il passato con quel misto di nostalgia e pathos con cui lo ricordano le persone oltrepassata una certa età.
   Nostalgia e pathos permeano “Far West Lazio”, ma non si parla solo di Lazio tra le pagine di questo libro. Nell’intervista che Simone mi ha fatto, il tema centrale è “il volo di Uccellino”, partito da un paesino del Bolognese e, secondo la teoria filosofica di mio figlio, rimasto da allora e per sempre in cielo con le sue ali che sbattono al ritmo di un cuore innamorato della vita.
   E a proposito di vita: “Prima bisogna morire per imparare a vivere. Poi si può vivere per imparare a morire.” Questa me la suggerisce Simone qui a fianco, che sta supervisionando la mia introduzione.
   “Che c’entra?” gli chiedo.
   “Non credo che tutti lo coglieranno, ma dietro a queste parole si nasconde il significato profondo del libro. E non solo del libro…”
   Io non so se ho capito bene cosa voglia intendere con le parole che mi ha consigliato, ma so che “Far West Lazio – Il volo di Uccellino” è un libro che dovreste assolutamente leggere. 


“A Roma volevano che io giocassi come Ghio.
Mi ribellai. Io non sono un imitatore, ma un giocatore di calcio.
Alighiero Noschese avrebbe sfondato in quella squadra, io no.
Mi chiamo Pier Paolo Manservisi e gioco a modo mio.”
(da un’intervista del 1971)


RISCALDAMENTO


1


Vedo un bambino con un logoro pallone di cuoio a pentagoni neri tra i piedi. Vedo il suo sguardo sognante mentre calcia quel pallone contro il muro davanti a casa.

Tum… tum… tutum… tututum… tum…

Vedo i vicini osservarlo con un misto di affetto e disperazione. Vedo la vecchietta del palazzo di fronte aprire la finestra e gridare: “L’è ancoura longa? Socc’mel ec du maròn!”
Siamo nella prima metà degli anni 80. Il bambino è nel suo giardino, ma la sua mente è lontana, vola in un mondo parallelo.
   Lo sento anche quel bambino. Gli sento fare la telecronaca a voce alta della partita immaginaria che sta giocando in quel momento.

“Bellissimo stop al volo di Manservisi, che sembra volare sulla fascia destra del campo… Barbadillo cerca di rubargli la palla, ma Manservisi è un fulmine. Lo salta, salta anche Diaz, tornato nel frattempo in difesa ad arginare questo fiume in piena… Tunnel a Favero… Cross al centro per Caniglia… Colpo di testa di Caniglia… Fuori di un soffio!
   Ricordiamo ai telespettatori che è l’ultima giornata del campionato 1983/84 e la Lazio si gioca lo scudetto contro l’Avellino di mister Bianchi; chi delle due vince è campione d’Italia. Ma torniamo alla partita: palla ancora a Manservisi… È un’altra spettacolare e travolgente azione dell’ala figlia d’arte del grande Pier Paolo. Tiro improvviso! Zaninelli para.
   Mancano pochi secondi alla fine della gara. Petrilli passa a Williams, Williams per Rececchini, Frustavolpi, Frustavolpi avanza, lancio millimetrico per Manservisi che dribbla Colomba, tira… Goool! Gran gol di Manservisi. L’arbitro fischia la fine. La Lazio è campione d’Italia!”

   Sento il bambino urlare di gioia. Lo vedo festeggiare mimando abbracci e “cinque” a compagni invisibili. Vedo passare il postino con un’espressione al tempo stesso divertita e perplessa mentre osserva quel giovane balzano.
   “Dai Simone, vieni a fare i compiti!”
   La mamma risveglia il bambino dal suo sogno ad occhi aperti riportandolo con dispiacere nel mondo reale.

   Adesso quel bambino è un uomo e siede sul divano del salotto accanto a suo padre. Pier Paolo, il padre, campione d’Italia con la Lazio lo è stato veramente nella stagione 1973/74. Simone, il figlio, lo è stato solo nella fantasia. Ma proprio grazie alla fantasia Simone ha vinto il suo campionato, attraversando le tempeste della vita e crescendo sia come persona che come artista dopo aver individuato la propria strada.
   Padre e figlio siedono vicini ora, quest’ultimo ha un quaderno e una penna in mano. Che intenzioni abbia non lo sa nemmeno lui; sa solo che si sente uno scrittore vero e come tale vuole… fare luce.



PRIMO TEMPO


2


È un uggioso pomeriggio di dicembre, Natale è alle porte. Papà siede sul divano, io sono sulla poltrona singola al suo fianco. Poco prima gli avevo chiesto se potevo intervistarlo e ora mi sembra quasi di essere uno psicologo che sta per entrare nei ricordi e nella mente del suo paziente. Sono anche un po’ emozionato perché mi rendo conto dell’eccezionalità della situazione; voglio dire, io che intervisto papà per scrivere un libro… Vi garantisco che è una sensazione stranissima.

S.: Pa’, com’era il mondo negli anni ’50, il mondo paesano intendo, quando eri un bambino/adolescente?

P.: Partiamo da così lontano?

S.: Sì, vorrei sapere com’era il nostro paese, Castello d’Argile, nel dopoguerra, e come si divertivano i giovani.

P.: Argile era quasi tutta campagna. Fuori dalla piazza e dalle porte che delimitano il centro non c’era nulla. Gli svaghi erano pochi, ma con poco ci si divertiva molto (oggi mi sembra che i ragazzi non sappiano più divertirsi). Il pallone era il divertimento più grande. Dove adesso c’è il bar Toni prima c’era il campo sportivo. Quando lo smantellarono per costruirci il bar appunto, ci trasferimmo in un campetto accanto al cimitero. Lì si svolgevano partite interminabili, da dopo pranzo fino a ora di cena. Di solito le sfide erano giovani contro vecchi: noi giovani eravamo adolescenti, mentre i vecchi avevano sui venticinque, trent’anni.

S.: A scuola come andavi?

P.: Insomma, non mi piaceva molto andare a scuola. Sono arrivato alla settima elementare, poi il babbo (tuo nonno Luciano) mi ha messo davanti a un bivio: “Se non ti piace studiare, vai a lavorare” mi disse. Così a 12 anni ho iniziato a lavorare come barbiere nella bottega di un amico.

S.: Qual è stata la tua prima squadra?

P.: La Pejo Corticella, squadra di un quartiere di Bologna. Era il 1960, avevo 16 anni. In quel periodo feci diversi provini per squadre professionistiche insieme ad amici e coetanei del paese: Torino, Inter, Sampdoria. Mi voleva il Bologna, ma Giuliano Sarti, il famoso portiere della Fiorentina e della Nazionale (anch’egli di Castello d’Argile) mi portò a Firenze per un provino e dalla stagione 1960/61 mi trasferii nel capoluogo toscano, acquistato dalla società gigliata.

S.: A casa come la presero?

P.: Erano contenti, in particolare il nonno Luciano, il mio primo tifoso.

S.: Quindi hai fatto le giovanili a Firenze.

P.: Esatto, 3 anni fino alla stagione 1963/64, quando insieme al compianto Ugo Ferrante (successivamente campione d’Italia con i Viola, morto cinquantanovenne nel 2004 dopo una malattia) esordii in serie A: ultima di campionato, Bari – Fiorentina sul neutro di Pescara.

S.: L’anno dopo la Fiorentina ti dette in prestito alla Lucchese. Ti dispiacque molto trovarti in serie C dopo aver sentito il profumo della massima serie?

P.: Beh, un po’ sì, però a Lucca mi trovai benissimo. Vivevo insieme agli altri scapoli della squadra. Ricordo con nostalgia le vasche su e giù per via Fillungo…

S.: In che ruolo giocavi?

P.: Ala destra. A fine stagione misi in carniere un buon bottino: 8 reti.

S.: Prosegue quindi la tua carriera in Toscana.

P.: Già, l’anno dopo sono a Livorno in serie B. Non è stato un anno particolarmente bello; tra l’altro facevo il militare nella Compagnia Atleti di Roma e forse il rendimento sul campo un po’ ne risentì. La stagione seguente rientrai ancora a Firenze, dato che sia a Lucca che a Livorno ero in prestito. Questo è un aneddoto interessante: era la stagione 1966/67, ero ancora sotto la naja. La Fiorentina mi convocò per una partita, dandomi l’opportunità di ri-esordire in serie A. Partii alla volta di Firenze dalla caserma di Roma. A Grosseto mi dissero che non si poteva proseguire per la piena del fiume Ombrone; in treno iniziai un’odissea incredibile, dirigendomi verso Ancona, poi di nuovo fino a Bologna. Da Bologna raggiunsi Firenze in macchina. Era venerdì 4 novembre 1966. L’Arno era strariparo e io e i miei compagni di squadra ci ritrovammo allo stadio comunale a distribuire viveri agli alluvionati.

S.: Così, dal possibile ritorno in serie A, ti trovasti in serie B a Pisa, squadra alla quale ti cedette la Fiorentina. Giusto?

P.: Proprio così. Gran begli anni quelli sotto la Torre! Dopo un primo anno così così sul campo, arrivammo secondi alle spalle del Palermo e insieme al Verona salimmo in serie A. Quell’anno feci ben 13 gol, il mio record personale. Nel 1968/69, al mio terzo anno in nerazzurro, ero finalmente titolare in serie A. Peccato che retrocedemmo subito al termine di quella stagione.

S.: Eravate così scarsi?

P.: No, anzi, con un pizzico di fortuna in più ci saremmo potuti salvare. C’erano dei buoni giocatori in quella rosa: Gonfiantini, Piaceri, Joan, Mascalaito, Ripari.

S.: C’era già il mitico presidente Romeo Anconetani?

P.: Sì, ma non era presidente. Faceva il mediatore, una figura scomparsa, da non confondere con il procuratore. Fu lui che per la stagione 1969/70 mi fece trasferire al Napoli, squadra che scelsi preferendola al Verona, che pure mi voleva. A Verona allenava mister Lucchi, che avevo avuto a Pisa e col quale avevo un ottimo rapporto, ma Napoli era Napoli.

S.: Ok, grazie Pa’, per oggi finiamo qui con la fine della tua avventura in Toscana.

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