giovedì 29 settembre 2016

MONDEMER

Mondemer è uscito nel 2012, seconda pubblicazione con Edizioni Il Foglio. Narra l'avventura di un gruppo di matti che fugge dal manicomico per andare alla ricerca della Vulva Filosofale. Capeggiati da Jesus (segnatevi il nome perché lo ritroverete nel mio prossimo romanzo) si troveranno di fronte a innumerevoli e pericolosissimi ostacoli durante la scalata al monte che li porterà - se riusciranno a raggiungere la cima - alla libertà e in particolare alla... Verità. Vi omaggio delle prime pagine, primo capitolo incluso.
P.s. Il libro è doverosamente dedicato al grande scrittore Wallace Codroipo.


UN ANEDDOTO 

Da bambino avevo sempre la testa fra le nuvole; già a otto anni il mio passatempo preferito era disegnare fumetti. Ricordo con un pizzico di sana nostalgia i pomeriggi passati a casa dei nonni a inventare storie nell’attesa che mamma e papà tornassero dal lavoro. Durante quelle ore di giorni lontani, chino sul tavolo da cucina che nonna condivideva con me per fare la sfoglia, venivo letteralmente trasportato in altri mondi, lontano mille miglia dalla realtà. Quanto mi piaceva! Quant’ero felice nel Regno della Fantasia!
   Circa sei mesi fa ho iniziato a scrivere questo libro. Non avendo nessuno che mi corre dietro dandomi delle scadenze, posso permettermi di lasciar fluire le parole solo quando l’ispirazione è all’apogeo, senza forzare quegli stati di “normalità” che non producono nulla se non, appunto, normalità.
   Ebbene, dopo aver scritto già diversi capitoli, un giorno mi capita di aprire il cassetto dove custodisco, come fossero documenti di valore inestimabile, i fumetti di cui parlavo: “Io e il pallone”, “I tre diavoli di Parigi”, “Titanus”, “1995 la caduta del Bronx”, “Guerra per il predominio” sono solo alcuni titoli ispirati a film e cartoni animati che guardavo all’epoca. Tra quei cimeli trovo anche un quaderno intitolato “La ricerca della sacra croce”, praticamente il mio primo testo narrativo in assoluto. Dopo chissà quanto tempo lo rileggo emozionato e divertito; è una storia banale e piena di errori ortografici e sintattici, ma avevo undici anni quando lo scrissi (la copertina è datata 1985). Essendo “obbligato” a frequentare il catechismo, io ero influenzato dalle favole che mi raccontavano preti, suore e loro discepoli. Si nota bene ne “La ricerca della sacra croce”, storia di un cavaliere inglese che parte dal suo castello alla ricerca della croce dove era stato crocifisso Gesù. Passando attraverso mille pericoli, che riletti oggi diventano di una comicità involontaria unica, trova infine l’oggetto tanto bramato. Dopo aver piantato la croce sul monte più alto d’Inghilterra (!) la pace regna finalmente nel mondo intero.
   Quando sono arrivato alla fine mi sono accorto delle tante similitudini che accomunano quella storia a questa, legate entrambe da un filo conduttore tanto invisibile quanto solido che ha attraversato oltre un quarto di secolo. Nel frattempo, nel corso degli anni, ho liberato la mente dal giogo delle religioni e dell’ignoranza, ma non potevo certo cancellare quel messaggio universale che accomuna tutti gli uomini dall’inizio dei tempi...
   Anche con gli altri fumetti c’è molto in comune, avventure dove la catarsi deve per forza avvenire dopo un lungo viaggio e una forte sofferenza. Mi sono quindi chiesto se quello che l’artista crea da adulto non sia altro che una continua rielaborazione (per arrivare a una sublimazione) dell’imprinting ricevuto da giovanissimo. La risposta che mi sono dato è: non lo so! Divertitevi.



Cronenberg, il ratto guardiano del Mondemer, per dar tempo ai protagonisti di questo romanzo di truccarsi e ripassare la parte, vi intrattiene citando ieraticamente, tradotte dal suo linguaggio astruo:

“Raggiunto solo a prezzo di enormi sforzi, l’equilibrio psichico di un artista è così delicato che ogni distrazione, ogni interferenza della cruda realtà esterna possono distruggerlo in un attimo: per fare arte bisogna voltare le spalle alla vita.” (Patrick McGrath – “Follia”)

“Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta.” (Giorgio Bassani – “Il giardino dei Finzi-Contini”)

“Io non ho bisogno di fare delle frasi. Scrivo per mettere alla luce certe circostanze. Diffidare della letteratura. Bisogna scrivere tutto come viene alla penna, senza cercare le parole.” (Jean-Paul Sartre – “La nausea)

“Complessivamente, i tuoi libri esprimono un senso della realtà maggiore di quello che esprimi tu.” (Philip Roth – “La lezione di anatomia)

“Certo, in un’epoca di pazzia, immaginare di essere immuni dalla pazzia è una forma di pazzia.”(Saul Bellow – “Il Re della Pioggia”)

“E, ammesso che tu riesca a scappare, non potrai più tornare in patria.”
“Bé, tanto peggio. E poi, la patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (Truman Capote – “Colazione da Tiffany”)

“Che ci facciamo qui Grande Capo? Eh? Che ci facciamo qui noi due in questo posto di merda? Andiamocene via, fuori.” (Jack Nicholson – “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) 



1


Sono matto. È un dato di fatto. Lo sono per la società che mi giudica, lo sono per la legge e lo sono perché un essere umano che ha visto la luce e si è messo in testa di raccontarla, non può essere che matto. L’unica consolazione che mi accompagna in questo viaggio letterario, che descrive però un’esperienza reale, è il fatto che solo i “matti” hanno da sempre raggiunto mete e oltrepassato confini preclusi ai cosiddetti normali o sani di mente.
   Tutto ha inizio con la nascita. No, non è corretto: solo questa storia ha inizio con la nascita, la mia nascita, perché che ci crediate o meno, venire al mondo non è che il culmine di un’incredibile concatenazione di eventi fortuiti e logici e più o meno casuali che partono dall’inizio dei tempi e proseguono ben oltre la morte terrena. Ora però non è il momento di filosofeggiare, anche perché il filosofeggiare di un matto può interessare solo altri matti e in questo mondo i matti sono emarginati, tenuti sotto controllo e spesso messi al rogo perché temuti, metaforicamente parlando; se qualcuno di loro mi sta leggendo potrei già considerarlo un successo clamoroso per questo libro. Quasi un miracolo!
   Dicevo dunque della mia nascita. La teoria sopra accennata assumerà ora una concretezza pratica inconfutabile: venerdì 18 maggio 1973 colui che di lì a qualche mese sarebbe diventato mio padre giocò per l’ennesima volta in vita sua una schedina del totocalcio. La sera di domenica 20 maggio stava osservando allibito i risultati sintonizzato su 90° minuto. Se avesse azzeccato il 13 sarebbe diventato milionario, invece il 12 che aveva in mano gli lasciava solo poche centinaia di lire di consolazione. Aveva sbagliato un solo risultato, quello della sua squadra del cuore, la neopromossa Lazio, che tra l’altro se avesse vinto sarebbe andata a giocarsi lo scudetto in uno spareggio con la Juventus. Il Napoli però gli aveva negato questa gioia come tifoso e soprattutto come scommettitore. Per un solo risultato su 13 la sua vita non aveva svoltato economicamente. Ma come tutti i piccoli e grandi eventi, gliel’aveva fatta svoltare per un’altra strada, nella cui direzione sarei poi apparso io. Ora però era lì, davanti al televisore in bianco e nero nel suo appartamentino della periferia romana che non riusciva a staccare gli occhi da quel Napoli – Lazio 1 a 0. L’incredulità lasciò il posto alla delusione e la delusione si trasformò in pochi minuti in rabbia.
   Turbato e incazzato, il mio imprecante genitore si recò al bar sotto casa e si ubriacò con una bottiglia di Punt e Mes; da una settimana aveva anche perso il lavoro in una ferramenta e quando rientrò trovò sua moglie, la mia futura madre, intenta a seguire un servizio del telegiornale che parlava della strage avvenuta tre giorni prima davanti alla Questura di Milano, dove un ordigno aveva causato quattro morti e decine di feriti. Questo particolare sul cosa stava guardando mia madre alla tv può sembrare superfluo, ma col tempo mi sono fatto l’idea che sono i particolari a fare la differenza, proprio come la fece un gol segnato in una porta anziché in un’altra. Papà la prese con una certa brutalità e proprio quella sera, uno spermatozoo su qualche miliardo intraprese un viaggetto che lo avrebbe trasformato nel sottoscritto. Perché so che accadde proprio quella sera? Perché anni dopo mia madre, nei panni di una mosca, mi avrebbe mostrato come lei e mio padre non facevano l’amore (sarebbe più corretto dire sesso) da mesi e per mesi dopo quella volta non lo fecero. Ma questo lo capirete meglio più avanti.
   Il 20 maggio di quell’anno, all’ultimo minuto dell’ultima partita di campionato della stagione sportiva 1972/73, Oscar Damiani del Napoli infilava la porta di Felice Pulici, portiere della Lazio. Entrambi non avrebbero mai nemmeno sospettato di avere un ruolo fondamentale nel destino del figlio di un uomo che viveva con la moglie in una palazzina di un quartiere fuori Roma. Nemmeno gli altri giocatori in campo allo stadio San Paolo lo avrebbero mai pensato, così come nessuno degli altri loro colleghi impegnati sugli altri campi. Tutti quegli uomini erano nati da uomini e donne che non avrebbero mai saputo di quest’uomo deluso dalla vita che si era ubriacato per non aver centrato un 13 milionario quella maledetta domenica. Eppure, due, ventidue, decine, centinaia, migliaia di persone erano coinvolte invisibilmente in quell’apparentemente insignificante episodio, episodio che sarebbe culminato e si sarebbe protratto con la mia nascita terrena. E la mia nascita avrebbe influenzato altre decine, centinaia, migliaia di persone in modi talmente vari e sottili che se ci si pensa si rischia di diventare… matti.
   Per farla breve e semplificare le cose, basti pensare che se la Lazio quel 20 maggio avesse battuto il Napoli, io sicuramente non sarei qui a scrivere un libro.
   Mamma mi partorì diciotto mesi dopo la fuga per la vittoria dello spermatozoo ribelle, caso unico al mondo che venne studiato da scienziati provenienti da ogni angolo del pianeta. Nessuno però lo venne mai a sapere perché chi mi analizzava ritenne opportuno non divulgare notizie a riguardo, nell’eventualità – almeno questo penso e pensavo – che potessero scoprire in me segreti in grado di rivoluzionare il mondo. Ciò non è ancora accaduto e dopo qualche anno il mio caso ha perso ogni interesse scientifico, anche se ogni tanto venivo ancora sottoposto ad analisi specifiche di ogni sorta, fisiche e psichiche.
   Essere rimasto nel grembo materno il doppio del tempo della gente normale ha avuto le sue conseguenze, negative e positive. Da piccolo per esempio, ci mettevo il doppio del tempo a fare le cose che facevano gli altri: camminare, parlare, apprendere. I miei genitori, che già avrebbero fatto volentieri a meno di un figlio, avevano il sospetto che fossi un ritardato. Anche i tempi di crescita e sviluppo fisico erano doppiamente lenti; solo il naso cresceva il doppio e a velocità normale, tanto che mi sono poi ritrovato adulto con un nasone ciranesco. Non poche persone mi consideravano, con mia grande sofferenza, uno scherzo della natura.
   Ovvio che questa lentezza ha creato una serie di ostacoli anche nei rapporti con i coetanei soprattutto da bambino: molti, per quella perfidia propria degli esseri umani implumi, mi schernivano pesantemente dandomi anche dell’handicappato. A casa ero privato dell’affetto di due genitori che, pur senza cattiveria, mi detestavano nel profondo dei loro cuori. Papà poi, che lavorava due mesi sì e tre no, aveva iniziato a bere forte, mentre mamma si faceva il culo per tutta la famiglia lavorando al mercato ortofrutticolo e invecchiando rancorosa.
   Un aspetto positivo della mia stramba condizione era che la lentezza nel crescere mi faceva invecchiare molto lentamente, tanto che a poco più di vent’anni (quando questa storia entra nel vivo) sembravo un bimbo di  poco più di dodici.
   A quattordici anni, papà, dopo aver cercato di convincere senza riuscirci un suo lontano parente a prendermi nel suo circo come tuttofare o forse come fenomeno da baraccone, mi mandò a vivere da una zia zitella in un piccolo paese del Bolognese: Casaldelbalengo. Ero abbastanza contento per questa decisione; zia Amelia mi voleva bene e il paese emiliano era assai più vivibile della città capitolina, anche se molto più bigotto e ottuso. Cominciai a farmi qualche amico e soprattutto cominciai ad apprendere con maggior velocità, colmando in breve tempo il gap intellettivo che mi separava dai coetanei. Mi iscrissi a un liceo artistico di Bologna. Qui il mio strano aspetto e quell’eccentricità che caratterizzava anche il modo di vestire erano accettati o almeno tollerati. All’epoca adoravo indossare quasi sempre, estate e inverno, una giacca marrone con toppe ai gomiti, camicia bianca con papillon nero a pois bianchi, pantaloni scozzesi di un rosso sbiadito e clarks beige. Il tutto, abbinato a capelli lunghi sempre spettinati mi faceva sembrare un vero e proprio barbone. O un clown. Ma come detto, al liceo artistico “Andy Wharol” di Bologna non importava a nessuno, se non a qualche raro professore un po’ retrò.
   Mi specializzai in fumettistica, finendo la scuola con ottimi voti. Avevo deciso di iscrivermi al dams ma nell’estate che separava le vacanze dalla nuova avventura universitaria, accadde il patatrac. Durante la festa del patrono, si teneva come tradizione la processione che portava la madonna di Casaldelbalengo dalla chiesa al cimitero e viceversa. Quella sera io e un paio di amici liceali eravamo nell’unico bar paesano a bere birra; io ne avevo bevuta davvero tanta e preso dall’euforia scommisi un’altra birra che mi sarei unito senza uno straccio addosso alla processione che stava sfilando in quel momento fuori dal bar. Loro accettarono la scommessa senza dare peso alle mie parole, ma quando videro che mi spogliavo si guardarono tra il divertito e l’allibito. Pochi secondi dopo ero completamente nudo in fila davanti al parroco, dietro la madonna portata da quattro chierichetti. Un paio di vecchiette svennero, urla e fischi di biasimo si alzarono dalla lunga fila di pellegrini. Un signore sulla sessantina mi strattonò e un altro mi coprì con un lenzuolo.
   “Conservate questo straccio” gridai, “diventerà più importante della sacra sindone.”
   Arrivarono i carabinieri e mi portarono via in stato d’arresto. “Sono il vero Messia!” proseguii  mentre mi caricavano in macchina. “Credete a me, non credete alle cazzate che vi raccontano quelli lì! Seguitemi o pecorelle smarrite, sono il vostro pastore…”
   Gli amici che erano al bar con me non sapevano se ridere o preoccuparsi seriamente.
   Quello fu il primo segnale di squilibrio che mostrai in pubblico. Nelle settimane successive ne diedi altri dopo essere stato in carcere per tre giorni e sottoposto a una perizia psichiatrica che mi etichettò come “soggetto non pericoloso ma imprevedibile, affetto da allucinazioni e manie di protagonismo”. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando mi incatenai al monumento al centro della piazza con indosso solo un paio di boxer e una corona di spine sulla testa. Sangue colava dalla fronte e dalle ferite che mi ero procurato sul costato con una lametta.
   “Lapidatemi se avete il coraggio!” urlavo. “Lapidatemi branco di farisei soggiogati dal peso dell’ignoranza.”
   Questa volta fu la Polizia Municipale a intervenire. Mi portarono a casa da zia insieme a due assistenti sociali e a uno psicologo. Le dissero che il mio stato si stava aggravando e forse era il caso di trasferirmi in una struttura adeguata. Anche se ero già maggiorenne le chiesero il consenso; lei lo diede a malincuore perché nessuno mi conosceva bene come zia: sapeva che ero strano ma sapeva anche che il mio cuore era rimasto puro come nei lunghi mesi trascorsi nella placenta materna, non inquinato dalla follia, quella vera, degli uomini.
   Prima del ricovero nel Centro di Igiene Mentale “Antonio Pitigrilli” di Bologna passarono un paio di giorni dopo l’episodio dell’autoflagellazione in piazza. Durante questo breve tempo che mi era concesso parlai molto con zia Amelia anche se non avevamo mai avuto un grandissimo dialogo.
   “Figlio mio” mi disse, “cosa ti sta succedendo? Perché fai tutte quelle cose blasfeme e folli?”
   “Zia cara” risposi, “Tu sola sai quanto ho sofferto sin da piccolo per la mia diversità. Ho attraversato l’adolescenza sentendomi un inetto, un incapace, un buono a nulla. Forse l’unica cosa che mi ha salvato dal suicidio sono stati i fumetti, i miei amici immaginari che oltre a leggere creavo e che erano gli unici a capirmi e a farmi compagnia. Sono sempre stato in bilico tra il resistere e il morire. Se sono ancora qua lo devo a loro. L’arte mi ha traghettato fino a questo porto seppure a fatica. Poi da qualche tempo è successo qualcosa di strano: il mio corpo e la mia mente che hanno sempre funzionato a rilento, si sono come scissi. La mente ingorda sta divorando tutto ciò che ha intorno, mentre il corpo continua il suo trend solito di crescita al rallentatore. Sembra quasi esserci stata un’esplosione nucleare nel mio cervello. Libri e fumetti letti, esperienze vissute, sentimenti provati, concetti, idee: tutto questo ha causato una reazione incontrollata in me. Ho reagito in modi strani e la gente ha ragione ad avere paura. Ma zia amatissima, ricorda, questo è solo il big bang della mia personalità e della mia esistenza. Sono insano di mente per tutti questi ignoranti? E sia, ma se non vorrò farmi incastrare dalla società, dovrò fare ancora molta strada e stare molto attento. Sento che se seguirò la mia “folle” natura, scoprirò qualcosa di importante… Una luce si è accesa dentro di me e adesso dovrò andare per la strada che illumina.”
   “Ma perché provocare a quel modo tutta quella gente?”

   “Zia zia zia, cos’è il genio e cos’è la follia?!” canticchiai. “Non lo so perché, ha fatto tutto il mio istinto sollecitato dall’esplosione cerebronucleare. Credo che volessi dimostrare che sono più figlio del loro Dio io di tutti loro messi assieme. Anzi, sai cosa ti dico? Io da oggi sono Jesus! Ma adesso zia, non ti preoccupare più di niente, vado a farmi una bella vacanza al manicomio.”

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