COME PERSI LA
VERGINITA'
(racconto)
Zio Lando faceva il
giardiniere-tuttofare nel convento delle monache ormonine di Cafarnao. A
quindici anni, durante il periodo estivo, ogni tanto lo andavo ad aiutare per
racimolare qualche spicciolo da reinvestire poi nell’acquisto di giornaletti
pornografici e videocassette di Selen, che proprio in quegli anni veniva da me
assurta a icona incontrastata dell’hard mondiale. Ricordo quelle giornate
assolate come fosse ieri. In particolare ricordo quel giorno.
Zio mi aveva lasciato solo nell’immenso giardino del convento perché
aveva altri lavori da svolgere presso la parrocchia di San Rocco a Babele.
Avevo appena finito di sfalciare il prato e stavo mettendo la miscela nel
decespugliatore per rifinire la base del recinto e le zone inaccessibili al
tosaerba, quando la
Materiora (così si chiama la capa delle Ormonine) mi chiamò
per bere un goccio di limonata fresca. La Gran
Suora (così la chiamavo io) mi chiese poi, mentre mi porgeva
il bicchiere ghiacciato, se fossi stato così gentile da rimpiazzare una decina
di crocifissi vecchi con dei nuovi nelle camere delle monache. Risposi che lo
avrei fatto subito volentieri, anche perché fuori c’erano quaranta gradi
all’ombra mentre all’interno del convento si godeva un fresco delizioso.
Le camere erano tutte singole e arredate in modo spartano: un letto, un
armadio, una piccola scrivania con una sedia e alle pareti solo il vecchio
crocifisso che essendo attaccato a circa tre metri d’altezza dovevo sostituire
servendomi di uno scaletto. Cominciai dalla stanza della Materiora, del tutto
simile alle altre se non per una piccola libreria che la distingueva. La
Gran Suora seguiva le operazioni dabbasso,
mettendomi un po’ in soggezione per lo sguardo severo e la mancanza di dialogo.
Ad un tratto, dopo aver sostituito crocifissi in due o tre stanze, sopraggiunse
un’altra monaca.
“Materiora” disse, “i fratelli Orovitz delle Pompe Funebri Orovitz
l’attendono giù nel salone principale.”
“Uh molto bene suor Monica!” esclamò la capa accennando un sorriso su
quel volto arcigno e rugoso che sembrava scolpito nella pietra. “Avranno
portato l’obolo per la festa di Santa Gertrude. Stia qui con il nostro Tony che
io scendo. Non ne avrà per molto.”
La monaca che ora controllava il mio operato sembrava avere dai trenta
ai quarant’anni e non era affatto male. Mi chiesi chissà quale trauma infantile
non metabolizzato l’avesse trasformata in pinguino timorato di Dio e proprio
mentre cercavo di immaginarmi il passato della monaca Monica, un piolo della
scala cedette cosicché mi ritrovai disteso sull’impiantito dietro al letto. La
suora accorse spaventata in mio soccorso. Ero supino e immobile mentre cercavo
di capire se mi ero fatto male; fortunatamente ero integro, ma fu l’”integrità”
di Monica a subire un duro colpo: spinta da un impulso troppo a lungo represso,
mi baciò con impeto. Quando si staccò dalle mie labbra era paonazza. Pensai che
sarebbe scappata in preda alla vergogna a confessare a Dio l’atto impuro,
invece la bramosia l’accecò e si accanì sulla mia patta, prendendo in bocca il
pene turgido come una zanna d’avorio. Sembrava non fare nemmeno caso all’olezzo
da pesce marcio che emanava il mio attrezzo dopo ore di lavoro sotto il sole
cocente. Ad ogni modo dopo un paio di minuti di assatanato su e giù, lo aveva
deterso a dovere. Ogni tanto lo guardava quasi commossa, neanche stesse
contemplando il crocifisso che giaceva accanto a me e lì finito nella caduta.
Quello che stava accadendo non sembrava reale, ma ciò che accadde poco dopo non
mi parve proprio vero: la suora sollevò il suo gonnellone da pinguino e si fece
penetrare. Io rimasi in silenzio insieme a lei, anche per captare rumore di
passi nel corridoio nel caso fosse passata la Materiora o qualche
altra monaca. Ad un tratto Monica parve gemere, ma proprio sul più bello si
alzò e sistemandosi velocemente scappò via. Rimasi a finire il lavoro di mano
spruzzando una fiumana di sperma sotto al letto. Finii di attaccare i restanti
crocifissi salendo sul pericolante e pericoloso scaletto e tornai al mio lavoro
in giardino.
Mentre rifinivo la siepe mi chiesi cosa avesse fatto fuggire suor Monica
a quel modo: aveva forse sentito qualche rumore in avvicinamento? Non lo seppi
mai, anche perché non la rividi più, nemmeno le altre volte in cui mi trovai ad
aiutare zio Lando. Molti anni dopo però mi diedi una risposta: nel momento in
cui stava per provare l’orgasmo si era spaventata. Era un evento troppo grande
per lei che aveva passato una vita di fedeltà e castità sacrificando la propria
femminilità a un Dio che nemmeno si era mai presentato. L’orgasmo avrebbe
distrutto tutte le sue convinzioni e probabilmente avrebbe ucciso quel Dio che
rappresentava la sua rugginosa ancora di salvezza nel tempestoso mare della
vita. Non aveva mai immaginato un’altra strada che non fosse quella della fede
più acquiescente e ora che l’aveva intravista non aveva voluto percorrerla.
Preferiva rimanere timorata di Dio piuttosto che… vivere.
Quel giorno, tornando a casa, pensai fischiettando che era proprio vero
quello che diceva sempre ironicamente zio, e cioè che l’abito non fa la monaca.
Io infatti mi ero fatto la
Monica , e questo è il racconto di come persi la verginità. Da
non crederci, vero?
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