lunedì 19 settembre 2016

COME PERSI LA VERGINITA'

Ok, iniziamo con un racconto "eronico" estratto da Appunti di un naufrago sentimentale. Il libro è una storia autobiografica, intervallata da opinioni, teorie, pensieri e racconti. Questi ultimi (alcuni) saranno postati qui di seguito. Mi dicono che fanno ridere e riflettere. Mi sembrano due ottimi motivi per vedere se siete d'accordo con questi giudizi.



COME PERSI LA VERGINITA'
(racconto)

Zio Lando faceva il giardiniere-tuttofare nel convento delle monache ormonine di Cafarnao. A quindici anni, durante il periodo estivo, ogni tanto lo andavo ad aiutare per racimolare qualche spicciolo da reinvestire poi nell’acquisto di giornaletti pornografici e videocassette di Selen, che proprio in quegli anni veniva da me assurta a icona incontrastata dell’hard mondiale. Ricordo quelle giornate assolate come fosse ieri. In particolare ricordo quel giorno.
   Zio mi aveva lasciato solo nell’immenso giardino del convento perché aveva altri lavori da svolgere presso la parrocchia di San Rocco a Babele. Avevo appena finito di sfalciare il prato e stavo mettendo la miscela nel decespugliatore per rifinire la base del recinto e le zone inaccessibili al tosaerba, quando la Materiora (così si chiama la capa delle Ormonine) mi chiamò per bere un goccio di limonata fresca. La Gran Suora (così la chiamavo io) mi chiese poi, mentre mi porgeva il bicchiere ghiacciato, se fossi stato così gentile da rimpiazzare una decina di crocifissi vecchi con dei nuovi nelle camere delle monache. Risposi che lo avrei fatto subito volentieri, anche perché fuori c’erano quaranta gradi all’ombra mentre all’interno del convento si godeva un fresco delizioso.
   Le camere erano tutte singole e arredate in modo spartano: un letto, un armadio, una piccola scrivania con una sedia e alle pareti solo il vecchio crocifisso che essendo attaccato a circa tre metri d’altezza dovevo sostituire servendomi di uno scaletto. Cominciai dalla stanza della Materiora, del tutto simile alle altre se non per una piccola libreria che la distingueva. La Gran Suora seguiva le operazioni dabbasso, mettendomi un po’ in soggezione per lo sguardo severo e la mancanza di dialogo. Ad un tratto, dopo aver sostituito crocifissi in due o tre stanze, sopraggiunse un’altra monaca.
   “Materiora” disse, “i fratelli Orovitz delle Pompe Funebri Orovitz l’attendono giù nel salone principale.”
   “Uh molto bene suor Monica!” esclamò la capa accennando un sorriso su quel volto arcigno e rugoso che sembrava scolpito nella pietra. “Avranno portato l’obolo per la festa di Santa Gertrude. Stia qui con il nostro Tony che io scendo. Non ne avrà per molto.”
   La monaca che ora controllava il mio operato sembrava avere dai trenta ai quarant’anni e non era affatto male. Mi chiesi chissà quale trauma infantile non metabolizzato l’avesse trasformata in pinguino timorato di Dio e proprio mentre cercavo di immaginarmi il passato della monaca Monica, un piolo della scala cedette cosicché mi ritrovai disteso sull’impiantito dietro al letto. La suora accorse spaventata in mio soccorso. Ero supino e immobile mentre cercavo di capire se mi ero fatto male; fortunatamente ero integro, ma fu l’”integrità” di Monica a subire un duro colpo: spinta da un impulso troppo a lungo represso, mi baciò con impeto. Quando si staccò dalle mie labbra era paonazza. Pensai che sarebbe scappata in preda alla vergogna a confessare a Dio l’atto impuro, invece la bramosia l’accecò e si accanì sulla mia patta, prendendo in bocca il pene turgido come una zanna d’avorio. Sembrava non fare nemmeno caso all’olezzo da pesce marcio che emanava il mio attrezzo dopo ore di lavoro sotto il sole cocente. Ad ogni modo dopo un paio di minuti di assatanato su e giù, lo aveva deterso a dovere. Ogni tanto lo guardava quasi commossa, neanche stesse contemplando il crocifisso che giaceva accanto a me e lì finito nella caduta. Quello che stava accadendo non sembrava reale, ma ciò che accadde poco dopo non mi parve proprio vero: la suora sollevò il suo gonnellone da pinguino e si fece penetrare. Io rimasi in silenzio insieme a lei, anche per captare rumore di passi nel corridoio nel caso fosse passata la Materiora o qualche altra monaca. Ad un tratto Monica parve gemere, ma proprio sul più bello si alzò e sistemandosi velocemente scappò via. Rimasi a finire il lavoro di mano spruzzando una fiumana di sperma sotto al letto. Finii di attaccare i restanti crocifissi salendo sul pericolante e pericoloso scaletto e tornai al mio lavoro in giardino.
   Mentre rifinivo la siepe mi chiesi cosa avesse fatto fuggire suor Monica a quel modo: aveva forse sentito qualche rumore in avvicinamento? Non lo seppi mai, anche perché non la rividi più, nemmeno le altre volte in cui mi trovai ad aiutare zio Lando. Molti anni dopo però mi diedi una risposta: nel momento in cui stava per provare l’orgasmo si era spaventata. Era un evento troppo grande per lei che aveva passato una vita di fedeltà e castità sacrificando la propria femminilità a un Dio che nemmeno si era mai presentato. L’orgasmo avrebbe distrutto tutte le sue convinzioni e probabilmente avrebbe ucciso quel Dio che rappresentava la sua rugginosa ancora di salvezza nel tempestoso mare della vita. Non aveva mai immaginato un’altra strada che non fosse quella della fede più acquiescente e ora che l’aveva intravista non aveva voluto percorrerla. Preferiva rimanere timorata di Dio piuttosto che… vivere.

   Quel giorno, tornando a casa, pensai fischiettando che era proprio vero quello che diceva sempre ironicamente zio, e cioè che l’abito non fa la monaca. Io infatti mi ero fatto la Monica, e questo è il racconto di come persi la verginità. Da non crederci, vero?

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