giovedì 7 settembre 2017

Altri racconti dalla raccolta VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE


LA TRAPPOLA


   TUTUTUMPH!
   “Aaaaaaaah!”
   Erano le due di notte quando Guerrino venne svegliato da un tonfo seguito da grida di dolore. Si precipitò giù dalle scale e lo vide nella buca, dolorante.
   “Chi sei?” domandò.
   “Aiuto, prego, aiuto.”
   “Ho chiesto: CHI-CAZZO-SEI? Sei un ladro?”
   “Aiuto.”
   “Te lo chiedo per l’ultima volta poi ti lascio lì a marcire: chi sei, un ladro?”
   “Sì, ma per favore, io rotto gamba, aiuto.”
   “Sei solo? Qualcuno ti aspetta fuori?”
   “No, io solo, aiuto.”
   Quando ebbe la conferma che si trattava di un ladro e che era solo, a Guerrino parve che una fanfara angelica intonasse una marcia trionfale solo per lui.
   “Aspetta, ora scendo passando dalla cantina e sono lì” disse iniziando ad eccitarsi.
   Guerrino viveva in una casa di campagna molto isolata. Era una casa abbastanza nuova che aveva acquistato dopo essere andato in pensione. Aveva lavorato alle Poste per una vita, accumulato un po’ di soldi e smesso definitivamente di lavorare si era trasferito il più lontano possibile dal centro della città dove aveva vissuto. Voleva stare solo, isolato dal resto del genere umano. Era sempre stato un tipo solitario e taciturno. Amava collezionare soldatini di piombo e libri antichi; nessuno lo aveva mai visto in compagnia di una donna o insieme a un amico.
   In casa, per proteggere le sue collezioni oltre che il denaro che preferiva tenere nel materasso piuttosto che in banca, contro sgradite intrusioni aveva progettato e realizzato un antifurto micidiale. Alla base della rampa di scale che portava alla zona notte aveva scavato una buca nel pavimento profonda più di tre metri e abbastanza larga da farci passare un elefante. Durante il giorno la voragine era ricoperta da solide assi sulle quali era posizionato il parquet che rivestiva tutto il salotto circostante. Quando Guerrino andava a dormire la notte o lasciava la casa incustodita per recarsi a fare compere in città, assi e parquet venivano rimossi e al loro posto adagiava un foglio di carta con sopra disegnato un finto parquet che mimetizzava perfettamente la buca.
   “Un giorno qualche zingaro di merda ci finirà dentro e allora…” si diceva praticamente ogni volta che copriva e scopriva la buca.
   Un giorno infatti, dopo un paio d’anni che abitava lì, un pesce finì nella rete. Finalmente il ragno aveva intrappolato la mosca!
   Guerrino saltò dunque la voragine e si diresse in cantina, dalla quale attraverso una porta nascosta dietro a un armadio si accedeva al fondo della buca dove era precipitato lo scassinatore. Accese una torcia e brandì una mazza da baseball.
   “Dove ti sei fatto male? Fa’ vedere…”
   “Qui, a gamba sinistra, non riesco a muovere, aiuto.”
   A quel punto Guerrino calò con violenza la mazza sulla gamba sana del malcapitato.
   “Aaaaaah, noooo, ti prego, non fare male a me!”
   TUM!
   “Aaaaah!”
   TUM!
   “Aaah, bastaaa!”
   TUM!
   “Uaaah!”
   “Ok basta, ora possiamo ragionare con calma. Come ti chiami?”
   “Viorel” rispose piangendo per il dolore.
   “Da dove vieni?”
   “Romania.”
   “Sei uno zingaro?”
   “No zingaro.”
   “Cosa cercavi in casa mia?”
   “Oro, soldi, mangiare, io fame, ti prego perdona me e chiama ambulanza, non mi importa se poi finisco in prigione, anzi è giusto che io finisco in prigione.”
   Guerrino sparì momentaneamente nella cantina a fianco dove ribaltò un tavolo, poi tornò da Viorel, lo prese per le spalle e lo trascinò fino al tavolo.
   “Cosa fai?” chiese il rumeno preoccupato.
   “Non ti preoccupare.”
   Sul piano ribaltato posizionò l’uomo dolorante legandogli gli arti con nastro isolante ad ognuna delle gambe del tavolo. Intanto il poveraccio, che sembrava un Cristo crocifisso, gemeva, imprecava, supplicava. Dopo un po’ gli scocciò anche la bocca.
   “Ora ti spiego cosa farò. Anzi, cosa faremo. Faremo un gioco. Si chiama “Il chirurgo pazzo”. Tu ovviamente sei il paziente e io il chirurgo pazzo.”
   “Mmm… mmm… mmm…” faceva Viorel imbavagliato. Gli occhi rivelavano un panico crescente.
   “Voglio essere subito sincero, per non illuderti. Le probabilità che tu esca vivo da questa cantina sono una su dieci miliardi. Ma se ti può fare stare meglio, pensa che dopo non soffrirai più. Torno subito…”
   Guerrino tornò di sopra. Prese un vassoio dalla cucina e vi mise sopra alcuni coltelli di varie dimensioni, forbici, cotone, disinfettante e un vibratore che recuperò dalla camera da letto. Prima di tornare giù in cantina ricoprì con assi e vero parquet la buca.
   “Rieccomi qui amico mio. Non sai quanto sono eccitato. Guarda qua!” disse mostrando il rigonfiamento sulla patta del pigiama. “Vuoi dire qualcosa?”
   “Mmm… mmm…”
   “Ah già, è vero che non puoi parlare. Immagino che tu abbia detto: “Comincia pure!” Ok, come vuoi.”
   Il chirurgo pazzo prese le forbici e tagliò i vestiti del paziente. Lo lasciò completamente nudo con indosso solo le calze e le consunte scarpe da tennis. Con il cotone imbevuto nel disinfettante strofinò il corpo tremebondo del prigioniero terrorizzato, soffermandosi in particolare sui genitali.
   “Mi piace il tuo cazzo. Sai, voglio darti una possibilità in più di salvezza: se ti si drizza in queste condizioni potrei pensare, forse, di risparmiarti.”
   Detto questo si sdraiò e prese in bocca il pene moscio di Viorel, i cui occhi erano ora una cascata di lacrime. Guerrino succhiava e leccava con bramosia. Lo fece per cinque minuti poi si stancò.
   “Immaginavo. Mi sarebbe piaciuto succhiare il tuo bel cazzo in tiro. Peccato. Vuoi vedere il mio? Guarda, tra un po’ scoppia.”
   Si tolse il pigiama, denudandosi completamente.
   “E adesso… Operiamo!”
   Con un coltello incise una croce sui capezzoli di Viorel, dai quali cominciò a sgorgare sangue.
   “Mmm… mmmmmm… mmmmmmm…” faceva il poveraccio sempre più disperato.
   Guerrino l’aguzzino intrise il vibratore del sangue della sua vittima e glielo infilò nel retto, stantuffando con foga ma anche con fatica dato che si dimenava come un ossesso.
   “Calmati o ti ammazzo! Va bene, ti ammazzo lo stesso, ma calmati.”
   Estrasse il vibratore, lo gettò in un angolo e prese un coltellaccio da macellaio.
   “Siamo al clou, amico mio.”
   Con una mano tenne teso il pene dell’uomo e con l’altra, con un colpo netto, glielo recise.
   Viorel svenne. Fiotti di sangue zampillarono addosso a Guerrino che senza neanche toccarsi venne in un orgasmo stordente. Dovette sedersi su una sedia di paglia lì accanto per colpa del violento giramento di testa che gli aveva procurato l’emozione.
   Ripresosi finì il lavoro. Piantò una ventina di volte un coltello affilato nell’addome del poveretto che già stava agonizzando.
   Passò il resto della notte a fare a pezzi il cadavere per poi seppellirlo non lontano da casa, in una fitta boscaglia all’interno degli argini del fiume Reno, che da quelle parti scorreva putrido e sonnacchioso.
   Non chiuse occhio per tre giorni di fila dopo quella volta. Ogni notte andava a letto sperando di sentire un grido provenire dalla buca. Era molto speranzoso che sarebbe ricapitato prima o poi: zingari, immigrati clandestini, disperati, drogati, crisi economica, degrado, povertà… Guardava il telegiornale con un ghigno diabolico stampato sul volto. Sì, lo sentiva, presto qualcun altro sarebbe caduto nella sua trappola.


MISTER MILF


Allenavo i Pulcini della Centese, quindici bimbi di 9/10 anni con scarsi mezzi ma tanta voglia di imparare e divertirsi. Modestamente credo di essere sempre stato un bravo mister-insegnante, soprattutto a livello educativo, e un ottimo entertainer.
   In mezzo a quei quindici c’era, come sempre capita praticamente in tutti i gruppi, la mela marcia: Matteo si chiamava, Matteo Menegardi, per gli amici Teo. Ogni allenamento richiamavo Teo almeno una ventina di volte, perché ascoltava poco, non eseguiva correttamente gli esercizi che preparavo, era svogliato, prepotente, maleducato e disturbava continuamente. Spesso lo mettevo in “punizione” seduto in panchina o a correre intorno al campo. Ce la mettevo però tutta per coinvolgerlo, invogliarlo e fargli tenere un comportamento decente, ma niente da fare.
   Di Matteo conoscevo la madre, Luisa, mia coetanea, che faceva l’estetista a Cento e che si diceva facesse bocchini a iosa, oltre ovviamente a scoparsi non solo il marito. L’idea del marito cornuto mi divertiva perché il padre di Matteo, al secolo Cesare Menegardi, era un’emerita testa di cazzo, la persona più ignorante e triviale che abbia mai conosciuto. Alle partitelle dei bimbi era il classico idiota che insulta tutti, arbitro, genitori e avversari, che essendo bambini la dice lunga sul livello neandertaliano dell’individuo. Lo sentivo spesso insultare anche me, soprattutto quando tenevo in panchina o sostituivo il figlio.
   “Mister da bigliardino” amava urlarmi.
   Un giorno, durante una partita di campionato, non ce la feci più e da bordo campo da dove dirigevo i miei ragazzi mi diressi sotto la tribuna dove Cesare sfogava le sue frustrazioni di perdente nato.
   “Può uscire dal campo per favore?” gli dissi gentilmente. “Qui si cerca di educare i giovani, non di rovinarli insegnandogli la maleducazione, l’antisportività e l’ignoranza troglodita.”
   Non l’avessi mai detto! Il Menegardi andò su tutte le furie insultandomi con maggiore veemenza; se la prese anche con gli altri genitori in tribuna, i quali mi avevano tributato applausi a scena aperta per il coraggioso gesto.
   “Mister sei forte Mister sei forte Mister sei forte…” canticchiavano madri e padri sugli spalti.
   Il padre di Matteo scese a sbraitare fin contro la rete di recinzione, non la finiva più, era un fiume in piena. Così mi avvicinai e gli sussurrai: “Carino il neo che ha tua moglie vicino alla figa!”
   Ammutolì.
   La settimana prima, dopo la doccia, avevo convocato la mamma di Matteo nel mio spogliatoio, che spesso fungeva anche da ufficio. Visto che con quell’imbecille del padre mi era impossibile parlare, speravo di risolvere qualcosa almeno con la madre. In effetti qualcosa risolsi, ma non nel senso pedagogico che mi ero prefissato .
   Mentre Matteo faceva la doccia nell’altro spogliatoio con i suoi compagni, la Luisona, dopo essersi scusata per i comportamenti del figlio con un “mi spiace ci fa diventare matti non sappiamo come fare con quel monellaccio di Teo”, mi slacciò la cintura dell’accappatoio che ancora indossavo e mi prese il cazzo in bocca. Ce l’avevo già mezzo bazzotto immaginando proprio uno scenario simile. La fantasia divenne realtà. Dopo avermi succhiato il cazzo per qualche minuto in ginocchio mentre io sedevo a gambe aperte sulla panchina, si sfilò le mutandine di pizzo nere che portava sotto una gonna blu scuro che le arrivava alle ginocchia, la alzò (lasciando intravedere il neo) e venne a sedersi a cavalcioni sopra di me. Mi scopò come una forsennata, venendo con gemiti sommessi  per non farsi sentire dai genitori che aspettavano i figli fuori. Le sborrai sugli stivali di pelle nera e mi sentii soddisfatto come poche volte mi era successo dopo il sesso. Luisa pulì gli stivali con una salvietta, si infilò le mutande, si ricompose un attimo allo specchio e uscì dallo spogliatoio come se niente fosse accaduto. Ci misi cinque minuti a rimettermi in piedi, quasi tramortito da quella chiavata.
   Il neo che Laura aveva tra l’ombelico e la vagina mi era rimasto impresso così quel giorno non potei fare a meno di usarlo come arma di distruzione di massa (cerebrale) nei confronti di Cesare, il quale, dopo esserci rimasto di stucco, girò i tacchi e se ne andò quasi tremante dal campo mentre gli altri genitori in tribuna praticamente mi osannavano. L’ottanta percento dei paparini non lo avrebbe però fatto se avessero saputo che le loro consorti erano tutte passate almeno una volta nel mio “ufficio”, che spesso rimaneva aperto anche di notte. Ho sempre avuto a cuore l’educazione dei bambini, perché il futuro dell’umanità dipende da loro. Ma purtroppo viviamo in un mondo pieno di figli di troia.
  
  
RADIO SHINING

Nel panorama massmediatico underground, in Italia, Radio Shining è sicuramente la radio più alternativa di tutte. Quando è uscito il mio libro Pensavo fosse amore invece era una un cazz’in culo, prontamente la redazione mi ha invitato nella sede di Bologna per intervistarmi durante il programma pomeridiano “Overlook Hotel”, condotto da Wendy.
   “Overlook Hotel” è la trasmissione di punta di Radio Shining, per cui ero onoratissimo di essere ospite. Mi ero presentato leggermente ubriaco. Ad essere sincero ero molto ubriaco, ma per l’eccitazione ero arrivato alla radio due ore prima di andare on air, così avevo trascorso il tempo al bar di fianco. Mi aveva accompagnato l’amico-manager Tony, bevitore da guinness dei primati; una birra tira l’altra un whiskino tira l’altro e al momento di andare in onda ero fracico. Però alla fine mi hanno fatto tutti complimenti sinceri, a partire da Wendy che il giorno dopo mi ha telefonato per dire che avevano ottenuto il record di ascolti e ricevuto centinaia tra e-mail e telefonate in redazione, per metà entusiastiche e per metà piene di insulti e minacce. Eh già, era stato un successo!
   Siccome non ricordavo benissimo cosa avevo detto, ho ascoltato la registrazione della puntata sul sito web di Radio Shining. Risentendomi debbo dire che non sembrava fossi ubriaco. Da sobrio probabilmente avrei detto le stesse cose, magari con un linguaggio più forbito ma meno verve.
   Per chi si fosse perso “Overlook Hotel” di quel giorno, trascrivo i passaggi più divertenti e interessanti, a mio giudizio.

WENDY: Il pomeriggio ha l’oro in bocca amici ascoltatori! Oggi a “Overlook Hotel” abbiamo l’onore e il piacere di avere ospite uno degli scrittori più ironici, irriverenti e surreali degli ultimi vent’anni, ma che dico venti: ventuno! È qui con noi Simone Manservisi, autore del recente Pensavo fosse amore invece era un cazz’in culo. Allora, Simone…

IO: Ciao Wendy, un saluto a tutti gli ascoltatori di Radio Shining.

WENDY: Per scaldarci un po’ – anche se non credo ne avrai bisogno visto l’alcol che hai in corpo – cosa ci dici del tuo ultimo libro?

IO: Che vi posso dire? Potete anche non comprarlo, tanto il titolo dice già tutto. Ho scritto un libro riassunto completamente in un titolo.

WENDY: La promozione e il marketing sono il tuo forte a quanto pare… Un ottimo venditore, complimenti Simone!

IO: Grazie. Comunque posso aggiungere che parla di sesso e amore trattando gli argomenti con ironia, cercando di approfondire il lato psicologico e filosofico del tema. Non è la solita cagata tipo Cinquanta sfumature di grigio che leggono solo le fighette ignoranti e i maschi impotenti.

WENDY: Qual è la molla che spinge uno scrittore a scrivere?

IO: Non so gli altri, io ti posso dire qual è la molla che spinge Simone Manservisi a scrivere: un disperato bisogno di esprimersi, per dare sfogo alle emozioni nonché al proprio talento. Scrivo perché se non lo faccio non respiro e se non respiro muoio.

WENDY: Una volta hai scritto: “Se non scrivessi sarei morto da tempo, oppure sarei diventato un serial killer.” Un serial killer?!

IO: Non vedi quanta gente impazzisce perché non dà sfogo all’energia interiore, perché non coltiva le proprie passioni, non insegue i propri sogni? Se non avessi scritto seguendo il “richiamo della foresta”, ovvero della mia natura, o anima, il rischio di finire ad accoppare la gente era concreto.

WENDY: Chi è veramente Simone Manservisi?

IO: È un tipo strano e te lo dico io che ci convivo da una vita. Ma sai da cos’è data questa stranezza? Dal fatto che in lui convivono caratteristiche diametralmente opposte, in Simone coabitano una timidezza e una sensibilità disarmanti insieme a una “smania di spettacolo” e un egocentrismo illimitati.

WENDY: Spiegati meglio.

IO: Torno a parlare in prima persona… Vedi, io ho nell’indole una certa spinta all’esibizionismo, ma sono timido, molto introverso. Senza il freno della timidezza a volte penso che sarei potuto diventare che so, uno showman, un attore, un comico… Ma va bene così, perché anche questi contrasti di pregi e difetti, di freni e molle, hanno reso Simone Manservisi Simone Manservisi. Posso affermare di aver tratto vantaggio dai miei limiti e handicap; sono un esempio di resilienza.

WENDY: Dicono anche che tu sia presuntuoso, quasi megalomane.

IO: Queste sono leggende senza alcun fondamento. A volte mi diverto a fare il presuntuoso per provocazione. E comunque sono da sempre convinto che per fare con entusiasmo una cosa – che sia scrivere, dipingere, recitare o avvitare viti in fabbrica – ci vuole un minimo di quella sana presunzione che ti fa dire: “sono bravo e lo sarò sempre di più”. Sentirsi forti è importante per diventare forti.

WENDY: Cosa ti dà più fastidio di questa società?

IO: Viviamo in una società alla deriva, in un mondo di merda. Il virus della follia ha infettato tutto e tutti ormai, pochissimi sono rimasti immuni. Questa società, nel suo complesso, mi fa schifo.

WENDY: So che ci sono categorie che ti sono particolarmente invise. Vuoi elencarcele?

IO: Beh sì… Per cominciare gli animalisti: mi fanno paura. Penso che chi ama un animale più di una persona sia un potenziale pericolo per l’umanità… Le frustrazioni e i traumi dell’infanzia non metabolizzati da costoro, potrebbero esplodere e fargli compiere delle stragi. Poi mi stanno sul cazzo i cani che abbaiano quando passeggi facendoti prendere un colpo e quelli che cagano per strada, che anche se la colpa è dei padroni, io li sopprimerei entrambi, il cane e il padrone.

WENDY: Esagerato!

IO: Poi ci sono i vegani, i vegetariani, gli astemi, gli ipersalutisti: mi sembrano persone senza anima, o almeno con un’anima spenta. Gli juventini! Emblema della corruzione e dell’incapacità critica che ammorba da decenni l’Italia. E ancora: i religiosi, qualsiasi sia la loro religione, poveri esseri senza un pensiero proprio, tristi, spenti. Stesso discorso per gli ultras politici, di destra, centro o sinistra. Nel ventunesimo secolo non hanno ancora capito che la politica è solo di sopra. E poi gli snob intellettuali! Quelli che si sentono superiori perché hanno letto Proust, Dostoevskij, Sartre, eccetera, quelli che se per caso nello scrivere sbagli a mettere un apostrofo al posto dell’accento ti guardano inorriditi come se fossi un appestato. Ma andate a fanculo voi e chi non ve lo dice!

WENDY: Super Manser, cos’è che ti fa l’effetto della criptonite?

IO: A parte la mediocrità e l’ignoranza umana, se uno mi obbliga ad ascoltare barzellette mi toglie tutte le forze. Anche chi mi parla di un argomento convinto di avere cognizione di causa e invece non sa un cazzo rischia di liquefarmi.

WENDY: Fobie?

IO: Uh, quanto tempo abbiamo? Mi ci vorrebbero due ore per elencarle tutte.

WENDY: Dicci le principali allora.

IO: Tanto per iniziare sono claustrofobico, faccio molta fatica a stare in spazi chiusi e stretti, soprattutto se affollati di gente; gli ascensori li evito quando posso e anche le gallerie autostradali mi mettono una certa ansia. L’acqua alta al mare mi fa paura, anche perché non so nuotare. Volare, in parte per colpa della claustrofobia, mi è quasi impossibile. Fino a pochi anni fa ero estremamente ipocondriaco e paranoico… Oggi, non so come ho fatto, per fortuna lo sono molto meno. Soffro di vertigini: se guardo giù da un balcone, già al secondo piano, mi gira la testa e sfrigolano i testicoli. Ho una paura fottuta delle montagne russe e del calcinculo. Tra gli insetti mi inorridiscono api, vespe e tafani. Tu ora dirai: “Minchia che uomo!” Oh, questo è il Manservisi. Vuoi che continui? Meglio di no.

WENDY: Come va la vita sentimentale e sessuale dell’autore di Pensavo fosse amore invece era un cazz’in culo?

IO: Va come un cazz’in culo. Non amo da vent’anni e non scopo da mesi.

WENDY: È un peccato. Uno come te potrebbe avere donne che fanno la fila…

IO: Macché! Oddio qualcuna c’è, ma non voglio prendere in giro nessuno. Quando ci sono in ballo sentimenti, nel caso di rapporti di coppia, o si ama o si corre da soli. Quando cerco di spiegare questa teoria mi sembra sempre di parlare ostrogoto…

WENDY: Io ti capisco. Belle parole, non sono da tutti.

IO: Comunque se vuoi metterti in fila anche tu, giuro che ti metto davanti!

WENDY: Lusingatissima. Magari un giorno ci andiamo a fare una birra.

IO: Ottimo. A proposito di birre, non ne avete una qui in studio che comincio ad essere in riserva?

WENDY: Tranquillo Simone, la puntata di oggi di “Overlook Hotel” è arrivata purtroppo alla fine. È stato davvero un piacere conoscerti e farti conoscere meglio ai nostri ascoltatori. Come faceva il buon Marzullo, ti chiedo di farti una domanda e darti una risposta prima di mandare la sigla.

IO: In un Paese che non legge, pieno di gente che scrive cagate, come cazzo farà quel geniaccio di Simone Manservisi ad avere successo? Risposta: un giorno ucciderà il Papa!

OMEN L’ALIENO


Omen era il suo nome, il suo nome da umano, perché in realtà era un alieno, caduto sulla Terra per sbaglio, adottato da bambino da una famiglia di un ameno paesino, lo trovarono in giardino dentro a un’astronave a forma di cono, lo crebbero con amore senza mai fargli mancare niente, riempiendogli il cuore, solo che un giorno il giovane Omen capì in un secondo che quello in cui viveva non era il suo mondo, parlava la lingua degli umani ma nessuno capiva la sua, soprattutto i cristiani, così costruì un apparecchio, una specie di telefono satellitare perché nel cosmo un messaggio voleva inviare, magari qualcuno della sua razza lo avrebbe ricevuto e a prelevarlo un altro alieno sarebbe venuto, la sua impresa però rimase vana, non fu mai rintracciato da anima sana, così passò il tempo, trascorse una vita di solitudine e di ribellione benché ricca di appagamento e soddisfazione, le persone buone gli avevano voluto bene, stimato e rispettato aveva campato, adesso, prossimo al decesso, si sentì felice lo stesso, dopotutto tornava a casa, solo il tempo di bere un ultimo espresso.

2024


Quando scrisse 1984 nel 1948, probabilmente George Orwell non immaginava quanto sarebbe andato vicino ad azzeccare le sue previsioni sul futuro. Ha scagliato il bersaglio di appena un quarantennio, ma a voler fare un paragone è stato come se Guglielmo Tell mirando alla mela avesse preso il picciolo da una distanza di trecento metri. Nell’opera orwelliana il totalitarismo, la falsificazione, la perdita di memoria storica indotta dai mezzi di informazione, la corruzione del linguaggio e l’annullamento dell’identità personale sono temi cardine e oggi, nel 2024, sembrano molto più attuali che al tempo dei totalitarismi novecenteschi.
   Questo stava pensando Wilson dopo aver visto un documentario sul pc intitolato I figli del Grande Fratello. Era un file salvato sulla sua segreta – in quanto illegale – chiavetta usb.
   Qualche anno prima, nel 2015, si cominciava a respirare una strana aria, ma nessuno avrebbe mai immaginato una così rapida e radicale svolta nella società occidentale e successivamente mondiale. Solo nove anni prima sembrava ancora di vivere in un’Europa libera; ovviamente si trattava di mera apparenza e solo rare menti illuminate avevano intuito che aria tirava, un’aria foriera di cambiamenti epocali devastanti.
   Anche Wilson usava la tecnologia nel 2015: internet, facebook, twitter, whatsapp. La adoperava però il giusto, senza farsi prendere troppo. Una volta era rimasto una settimana senza telefono e aveva appurato con soddisfazione che non gli era mancato troppo; non gli era venuto un attacco di panico come era accaduto a sua sorella Jane quando aveva perso l’iphone e non era andato in depressione come il suo amico Michael quando aveva avuto problemi per giorni alla linea adsl di casa.
   Wilson era uno degli immuni, ma coloro verso i quali la tecnologia informatica esercitava una debole o nulla influenza rappresentavano una piccolissima, infinitesimale parte della società. Bastava guardarsi intorno per notare che non c’era praticamente un solo giovane che non avesse la testa perennemente piegata sul suo telefono, o tablet, o altra diavoleria elettronica moderna, a smanettare ossessivamente e a ricevere tonnellate di input al minuto, input che naturalmente il cervello non poteva elaborare. Per gli adulti il discorso non cambiava di molto e persino gli anziani cominciavano a non poter più fare a meno di smartphone e compagnia bella.
   Nel 2017 Wilson prese una decisione drastica: decise di staccarsi completamente dal mondo di internet. A stancarlo fu soprattutto il mondo dell’informazione che attraverso quei canali arrivava alla gente. Sapeva che le notizie erano capziose, false, tendenziose, atte a indirizzare la gente verso opinioni standardizzate e lontane dalla verità.
   Questa abiura nei confronti della Rete lo salvò per qualche tempo, lasciandolo un uomo libero, benché la libertà comportasse un altissimo prezzo da pagare.
   Nel 2020 la popolazione terrestre, escludendo alcune zone dell’Africa più povera e le lande più sperdute del pianeta, era praticamente tutta soggiogata, ma fu solo nel maggio 2024 che il Padre Onnipotente – centro nevralgico dell’establishment mondiale – lanciò il segnale definitivo… Una luce giallognola illuminò tutti gli schermi di telefoni e computer presenti sul globo. Gli esseri umani persero così completamente la capacità di pensare in proprio (che già nei secoli precedenti era stata messa a dura prova dalle religioni, ora abolite per far posto ad un unico Dio Padre…) trasformandosi in zombie, schiavi del Padre Onnipotente che li rese innocui e totalmente manipolabili a suo piacere.
   I film, le canzoni, i libri… tutta l’arte di un certo tipo venne messa fuorilegge e distrutta. In particolare le opere cartacee furono bruciate e la storia dell’umanità riscritta solo in Rete. Una storia completamente inventata dal Padre Onnipotente.
   Le nazioni sparirono nel 2024, fuse sotto l’unica bandiera dell’impero mondiale governato dal Padre Onnipotente, il quale, grazie al calcio, donava un po’ di svago ai suoi sudditi che solo la domenica riposavano dalle fatiche di una settimana lavorativa sottopagata e alienante. I campionati erano falsati, già decisi in partenza a tavolino dal Padre Onnipotente.
   Wilson era dunque scampato al lavaggio del cervello perpetrato al 90% degli esseri umani presenti in quel momento sulla Terra, ma aveva dovuto diventare una sorta di clandestino, un invisibile, un barbone ostracizzato e disprezzato. Non volendo sottostare alle regole del Padre Onnipotente, viveva nascosto in periferia, in un angusto appartamento fatiscente senza riscaldamento. In casa aveva una libreria ben fornita, una delle poche che probabilmente esistevano ancora nel mondo e che gli sarebbe costata come minimo la galera se fosse stata scoperta dalla Polizia Padronale. Campava facendo caricature ai turisti nelle piazze della città; anche se l’arte, compreso il disegno, era bandita, il turismo era considerato una risorsa dal Padre Onnipotente, così Wilson non era ancora incappato in guai con la legge, tollerato perché manteneva vivo quel minimo di folklore che distingueva la sua città da tutte le altre del pianeta.
   Nonostante questo, quell’anno venne promulgata la legge che vietava tassativamente l’uso di matite, penne e carta, strumenti equiparati alle armi più pericolose. La carta era comunque già da tempo un bene raro quasi irreperibile se non sul mercato nero.
   Una sera mentre rincasava dal suo solito pub (per fortuna, pensava sarcasticamente, ci hanno lasciato almeno l’alcol per farci assaporare un po’ di libertà illusoria), appena infilata la chiave nella serratura un violento colpo alla testa lo tramortì. Si risvegliò alcune ore più tardi in quella che pareva una stanza d’ospedale, legato con cinghie a un letto sudicio, con varie flebo infilate negli avambracci ed elettrodi attaccati alla testa precedentemente rasata. Davanti ai suoi occhi, ai piedi del letto, c’era un megaschermo.
   Partirono le immagini di un telegiornale che descriveva i fatti quotidiani: il Padre Onnipotente aveva impedito un conflitto nel tal posto, ne aveva risolto uno nel tal altro, aveva estirpato la mafia qui, creato posti di lavoro là, costruito un ospedale in un paese, restaurato lo stadio in una città, eccetera.
   Dopo una settimana Wilson  tornò a casa nel suo vecchio appartamento. La libreria era sparita. Sul tavolo della cucina trovò una scatola contenente una chiave e un telefono cellulare di ultima generazione. Il telefono si accese automaticamente appena lo prese in mano e sullo schermo apparve il Padre Onnipotente; spiegò a Wilson che la chiave era quella del suo nuovo monolocale in centro, affacciato su Corso dell’Ubbidienza, e l’indomani avrebbe dovuto presentarsi all’ufficio di collocamento rionale per ottenere un lavoro al C.C.I. (Centro Controllo Informazioni) direttamente gestito dal Ministero della Propaganda. Un sorriso apparve sul volto spento di Wilson mentre gli occhi gli brillavano di luce giallognola. Ora anche lui era un perfetto ingranaggio del Sistema.


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