LO GNOMO
NELL’ARMADIO
Lo gnomo. Lo chiamavo così per comodità,
in realtà non era uno gnomo. Era sì piccolo come uno gnomo – o come si presume
debba essere piccolo uno gnomo – ma aveva il volto scimmiesco, il cranio glabro
e bitorzoluto, il corpicino minuto di un neonato ricoperto da cicatrici e una
lunga coda di ratto. Il sedere era pustoloso, mentre il pene mi ricordava un
ditale da sarta attaccato sopra a due olive all’ascolana. Sembrava più un
aborto di macaco che uno gnomo.
Viveva nell’armadio della mia camera, accanto al letto, di fronte alla
scrivania. Era apparso all’improvviso una sera di venti anni prima e dopo
un’iniziale difficile convivenza avevamo raggiunto un compromesso: io lasciavo
in pace lui e lui non disturbava me. Passavano giorni, a volte settimane senza
che ci vedessimo. Quasi sempre usciva quando tornavo a casa da una serata al
Circolo, ubriaco o fatto; a quel punto eccolo sbucare prontamente dall’armadio
per tormentare le mie nottate impedendomi di dormire. Col tempo, non so perché,
il tacito accordo di non belligeranza è saltato e lo gnomo è diventato sempre
più molesto.
Il Circolo era l’appartamento di Tony, un tugurio dove ci riunivamo
spesso per discutere di libri, fare progetti rivoluzionari e utopistici per
cambiare il mondo (progetti che il mattino dopo prontamente non ricordavamo
più) e soprattutto bere, bere, bere. Rientrato a casa, non appena mi coricavo
lo gnomo saltava sul letto e mi faceva gli scherzi. Mi tappava le narici, mi
faceva solletico con la coda, mi poggiava il culo brufoloso sulla faccia,
eccetera.
Una volta mi svegliò perché si era messo a scoparmi un orecchio.
“Che cazzo fai!” dissi dandogli una manata che lo fece volare giù dal
letto.
Lui sorrise in quel modo beffardo che solo lui
aveva e venne a sedersi sulla mia pancia.
“Ok, sono ubriaco. Non puoi lasciarmi stare una volta tanto?”
Lo gnomo fece di no con la testa poi salì sulla scrivania e si mise a
cagare sul portatile, che fortunatamente era chiuso. Avevo imparato col tempo
che incazzarmi era inutile, anzi controproducente. Se mi fossi alzato dal letto
e avessi cercato di acchiapparlo sarebbe diventato ancor più dispettoso. Magari
oltre a cagare sul pc avrebbe imbrattato di merda anche la libreria, mandandomi
letteralmente fuori di testa.
“Ok testa di cazzo, mi arrendo. Ti sei divertito? Ora puoi tornare nel
tuo antro.”
Parve deluso dalla mia resa. Pisciò dentro a un cassetto e tornò
nell’armadio.
La mattina dopo mi svegliai a mezzogiorno. Non ricordavo granché della
serata precedente da Tony al Circolo. Ma la cagata sul pc e il forte odore di
urina proveniente dal cassetto dove tenevo diari e manoscritti mi riportò alla
mente la nottataccia con lo gnomo.
“Grande figlio di puttana!” esclamai rivolgendomi all’armadio chiuso.
“Prima o poi ti infilo uno spiedo su per il culo e ti faccio alla brace. Mi
senti lì dentro?”
Pulii la merda e misi quaderni e fogli ad asciugare.
Da qualche tempo lo gnomo aveva cominciato a esagerare. Quando era
apparso per la prima volta nel 1996 non era così stronzo. Sì, si divertiva a
farmi incazzare anche allora ogni tanto, ma non oltrepassava mai certi limiti.
Ricordo bene il primo giorno, o meglio la prima notte del nostro incontro: dopo
essere tornato ubriaco dal Bar Collomanonmollo sbucò improvvisamente
dall’armadio e con un “buh!” mi fece prendere quasi un colpo mentre seduto sul
letto cercavo a fatica di sfilarmi i Doctor Martens. Tornò subito dentro.
“Cazzo era quel coso?!” feci
ad alta voce.
Passato lo stupore mi convinsi di aver avuto un’allucinazione. Trascorsi
due giorni, sempre di ritorno un po’ sbronzo dal bar, il fatto si ripeté.
Capitò poi ancora, ancora, ancora… Si sono succeduti gli anni e con essi, come
ho già detto, è aumentata la sua stronzaggine. Io sono invecchiato mentre lo
gnomo ha sempre lo stesso aspetto strafottente e disgustoso. Ultimamente provo
un po’ di disgusto anche nei miei confronti. Tutte le sere che rincaso ubriaco
– e capita sempre più spesso – lo gnomo è già lì davanti all’armadio ad
aspettarmi per ricordarmi quanto schifo mi faccio.
Il mese scorso è successo qualcosa.
Rientrato dal Circolo sorpresi lo gnomo seduto alla scrivania. Il pc era acceso
e il piccolo essere malefico fissava sullo schermo una pagina bianca di word.
Si voltò lentamente e mi osservò, uno sguardo duro, concentrato, intenso, che
non gli avevo mai visto. Mi strizzò l’occhio e in quel momento ebbi come
un’illuminazione. Capii. Provai quasi l’istinto di andarlo ad abbracciare. Lui
invece si alzò sulla sedia, puntò il culo nella mia direzione e dopo aver
mollato una lunga e rumorosa scoreggia sparì dentro all’armadio.
Da allora non l’ho più rivisto, nemmeno quando sono tornato ubriaco dal
Circolo. Da quel giorno mi sono seduto al pc e ho cominciato a riempire pagine
di word.
Forse un giorno ricomparirà, ma sono certo che non sarà così stronzo.
Dopo tutto voglio bene allo gnomo. È una parte di me.
GIGIONE
Senza Gigione il Venus non sarebbe stato
famoso com’era. Tutti associavano il nome del Venus a Gigione. Se per caso
qualcuno, menzionando il locale, non capiva di quale pub si stesse parlando,
bastava dirgli: “Dai, quello con il gigante che fa tutte quelle domande
balzane.”
“Ah il Venus!” veniva subito spontaneo all’illuminato interlocutore.
Gigione era un bambino di cinque anni intrappolato nel corpo di un
energumeno di trenta. Ogni volta che lo vedevo al Venus non potevo fare a meno
di pensare che gli sarebbe bastato dare una manata in faccia per mandare un
cristiano all’altro mondo, o come minimo far regredire per sempre anche il suo
cervello all’età di cinque anni. Ero e sono convinto che se avesse sfidato sul
ring il più forte peso massimo professionista, lo avrebbe messo k.o. al primo
cazzotto.
Tutte le sere del weekend, da venerdì a domenica, Gigione si piazzava
subito dopo l’ingresso del Venus, accanto alla cassa, e dalla sua postazione
privilegiata poneva le domande più assurde agli avventori del pub. Tony, il barman
proprietario, lo lasciava fare perché in fin dei conti non dava fastidio a
nessuno e aveva capito che la sua presenza portava una ventata di notorietà in
più al Venus. Pubblicità gratuita.
Di solito aveva tre domande principali nel suo repertorio: “Che tempo fa
domani?”, “Quando viene il terremoto?” e “Verremo mai colpiti dai meteoriti?”.
I temporali, i terremoti e i meteoriti erano le sue tre grandi fobie,
così bastava rispondergli che domani sarebbe stato bel tempo, che il prossimo
terremoto sarebbe venuto tra cent’anni e che i meteoriti cadono in testa solo
ai matti e gli si stampava in volto un’espressione serena e soddisfatta.
Qualche stronzo si divertiva a farlo agitare dicendogli per esempio che tuoni e
fulmini avrebbero flagellato il paese entro poche ore. La sua faccia allora si
trasformava in una maschera di terrore, fino a che Tony non lo rincuorava
dicendo che stavano scherzando. Gigione continuava comunque imperterrito a
chiedere ad altri avventori.
Abitualmente io sedevo con la mia birra (con le mie birre!) sullo
sgabello più vicino alla cassa, con Gigione che orbitava quasi sempre alle mie
spalle. Dopo i soliti cinque minuti con le sue solite domande preoccupate e le
mie solite risposte ansiolitiche, mi lasciava stare per andare alla ricerca di
altre “vittime”.
Solo una volta mi fece una domanda diversa da “Che tempo fa domani?” e
compagnia bella.
“Scusi (dava sempre del Lei a tutti), sa se gli scienziati hanno
inventato un modo per far resuscitare i morti? Mia nonna è morta e mi
piacerebbe riaverla con me.”
Povero Gigione. Gli dissi che purtroppo, per quel che ne sapevo, non
avevano ancora inventato niente. Ma chissà che un giorno… Non disperare
Gigione!
Quando Tony metteva in sottofondo la musica degli AC/DC – solo con quella
– Gigione dimenava il testone abnorme sorridendo come inebetito e diventando
ancor più un’attrazione per i frequentatori del Venus. Il barman una volta mi
raccontò, e non sono sicuro che mi prendesse per il culo, che un circo voleva
ingaggiare il gigante per portarlo in tour come fenomeno da baraccone.
Non so se fosse nato così o lo fosse diventato in seguito a qualche
incidente; una leggenda che girava al Venus narrava che fosse rimasto appeso a
testa in giù per ore una volta che da bambino si era arrampicato su un albero
per raccogliere ciliegie. Qualcun altro diceva che lo aveva colpito un fulmine,
spiegando così anche la sua paura per i temporali.
Credo vivesse con la madre in una villa dell’Ottocento alle porte del
paese, lavorando qualche ora al giorno come spazzino comunale, assunto con un
contratto per l’inserimento lavorativo dei disabili. Quando pioveva o
minacciava brutto tempo era però esentato dal presentarsi al lavoro.
Il gigante non era insensibile al fascino femminile. Quando rivolgeva le
sue domande a una ragazza attraente il suo volto si illuminava di una luce
diversa, in particolare quando si rivolgeva a Laura, della quale si era preso
una cotta. Si vedeva da come si agitava quando la vedeva entrare al Venus. A
chiederle del tempo diventava tutto rosso. Laura era sempre gentile con lui, ma
era anche l’unica che doveva dirgli “basta” perché si dilungava un po’ troppo
con lei. Dopo averle parlato potevano anche dirgli che stava venendo un
terremoto devastante ma lui se ne stava fermo e sorridente a ciondolare il
capoccione mastodontico, dentro al quale chissà che film mentale si stava
svolgendo.
Laura aveva poco più di vent’anni. Non frequentava spesso il Venus, ma
credo che Gigione venisse al pub solo con la speranza di vederla ogni tanto.
Un venerdì trovai il Venus chiuso, con un’ambulanza e tre macchine dei
carabinieri che ne bloccavano l’entrata. C’era una gran confusione fuori dal
locale. Il maresciallo si stava facendo medicare una ferita sulla fronte da
un’infermiera. Chiesi a un ragazzo e una ragazza che si stringevano l’un
l’altra per farsi forza cos’era successo.
“Gigione” disse lui con la voce che gli tremava. “Una tragedia.”
Vidi Tony uscire scuotendo la testa disperatamente. I carabinieri
facevano domande a persone che non molto tempo prima dovevano essersi trovate
dentro al Venus. Arrivarono dei giornalisti e anch’essi si misero a fare
domande a destra e a manca.
Fu Banana, uno degli habitué del locate, a spiegarmi cosa era successo.
Raccontò una versione scevra di particolari. Solo i giorni seguenti si capì
meglio come erano andate le cose: Laura era al Venus e ovviamente come ogni
venerdì c’era anche Gigione. Lei era andata in bagno e lui l’aveva seguita.
Pare si fosse messo a spiarla dall’alto del muro che divideva il bagno dei
maschi da quello delle femmine, essendoci uno spazio aperto lassù. La ragazza
se n’era accorta e le era scappato un grido; a quel punto Gigione doveva essere
andato nel panico più totale, era uscito dal bagno dei maschi ed era entrato
nella toilette che occupava Laura; forse voleva scusarsi ma la ragazza, presa
dal panico più del gigante, aveva iniziato a urlare più forte. Lui allora le
aveva spezzato il collo, probabilmente, penso io, come un qualsiasi altro
essere umano spezzerebbe un ramoscello d’ulivo. A quel punto, vedendo la
ragazza inerte tra le sue braccia, Gigione si era eccitato, aveva spogliato il
cadavere ancora caldo della giovane e l’aveva penetrata squarciandole
letteralmente la vagina. Un tizio che era entrato in bagno si era accorto di
quello che stava succedendo nel wc delle donne e aveva chiamato aiuto. In sei
gli erano saltati addosso per fermarlo, ma lui aveva continuato il suo amplesso
come se niente fosse, venendo tra le gambe sanguinanti di Laura. Si era tirato
su i pantaloni ed era tornato al suo posto. Tony aveva chiamato 118 e
carabinieri, che dopo una lunga colluttazione, aiutati da alcuni giovani
presenti, avevano bloccato Gigione, il quale vistosi minacciato da tante
persone era diventato una furia.
Mentre ero lì ad ascoltare la versione di Banana, arrivò un furgone
della celere. Poco dopo uscì Gigione scortato da due agenti, ammanettato e
sicuramente imbottito di anestetico per cavalli. I giornalisti lo assalirono
con raffiche di domande, mentre i carabinieri cercavano di disperderli. Prima
che salisse sul furgone lo vidi rivolgersi a Tony.
“Che tempo fa domani?” gli chiese.
“C’è il sole” rispose il barman.
Vidi la felicità dipingersi sul volto di Gigione prima che gli sportelli
si chiudessero.
Sì Gigione, per te ci sarà sempre il sole. Siamo noi, invece, che
aspettiamo il temporale.
LA MIA EX
La mia ex ha 70 anni ed è la mia ex da 50. Io sono morto una trentina di anni fa
ma questo non mi impedisce di scrivere.
Per la cronaca un tumore al fegato mi ha riportato nell’eternità dalla
quale venivo poco più che quarantenne. Facevo lo scrittore quando ero in vita.
Cioè, non è che lo facessi di professione, ma era una delle poche cose che mi
faceva sentire vivo. Per campare facevo lavoretti saltuari immaginando nel
frattempo le storie che avrei scritto nel tempo libero.
Avevo scoperto la passione per la scrittura durante il periodo in cui la
mia ex non era ancora la mia ex. Le scrivevo valanghe di lettere. Non essendo
mai stato bravo con le parole dette e
neppure a esternare sentimenti, metterli – i sentimenti – su carta mi liberava
da diversi fardelli emotivi permettendomi di render manifesto l’amore che
provavo. Ma è stato solo dopo che la mia ex è diventata la mia ex che la mia ars ha
fatto un salto di qualità mezzo secolo prima.
Ero innamorato perso della mia ex quando non era la mia ex, ma ho capito
solo quando è diventata a tutti gli effetti la
mia ex quanto la amassi. Uno come me aveva però un destino che non si
accordava con il suo. Come lei, avrei desiderato una famiglia con tre o quattro
figli, purtroppo i punti in comune si fermavano lì. Lei era una ragazza che
puntava alla carriera lavorativa, desiderava un marito facoltoso, la villetta
indipendente, il macchinone galattico, il macchinino figo, i vestiti alla moda,
le vacanze estive al mare, quelle pasquali all’estero e le natalizie in
montagna; la mia natura era tutt’altra, incompatibile con la sua, tanto che
presto lei è diventata una volta per tutte la
mia ex.
Il tempo e il destino hanno fatto il loro corso; mente io facevo i conti
con la mia indole artistica e il mio spirito maledetto, lei ha trovato l’uomo
che faceva al caso suo, che le ha permesso di ottenere ciò che agognava.
Non mi lasciò per lui però; mi lasciò semplicemente perché LEI era LEI,
IO ero IO e LEI + IO non dava nessun risultato. Non funzionavamo insieme e il
nostro tempo si è esaurito. Ho sofferto, ho scritto, sono guarito, ho scritto
ancora, sono cresciuto, ho continuato a scrivere. Infine sono morto.
Ora vedo la mia ex seduta sulla panchina di un parco, attorniata dai
nipotini. Sembra una nonna serena, felice della vita che ha vissuto. Una nuvola
passa momentaneamente davanti al sole. Già, la nuvola! Arriva insieme a suo marito,
ottant’anni portati egregiamente. I nipoti corrono incontro al nonno, lo
abbracciano, lui scherza con loro. Si siede accanto alla mia ex, che lo guarda
ancora con quello sguardo sognante che aveva da giovane innamorata. E in
effetti innamorata di suo marito lo è sempre stata, fedele come un cagnolino e
orgogliosa del suo uomo tanto da farlo notare alle amiche ad ogni occasione.
“Fortuna” che non ha visto quello che ho visto io da qua… Non credo che adesso lo guarderebbe
con quegli occhi, dubito che ora sarebbe lì con lui. Avesse visto quante troie
si è scopato in tutti questi anni e che, grazie all’“amica blu”, ancora scopa
ogni tanto, la strada della sua vita avrebbe preso un’altra direzione.
Ricordo quando la mia ex era in procinto di diventare la mia ex che le
dissi: “Al mondo non incontrerai mai uno più fedele, onesto e sincero di me.”
Ero forse un po’ troppo melodrammatico, ma una cosa è certa: era tutto vero.
Lei invece ha preso per vera la più falsa delle commedie.
Osservandola in questo momento, così sicura di sé e delle basi che hanno
sostenuto il suo castello di certezze sentimentali e materiali, mi rendo conto
di quanto la vita sia ILLUSIONE. La mia ex è stata illusa dalla vita e così è
vissuta felice e contenta come la principessa delle favole. Una favola le è
stata raccontata. E lei ci ha creduto.
Anch’io, per quel poco che ho transitato sulla Terra, sono stato felice,
perché anch’io, dopotutto, credevo nelle favole. Con la differenza che quando
queste favole mi venivano raccontate per “incularmi” me ne accorgevo, magari
non subito ma me ne accorgevo.
Comunque, poco importa. Io, la mia ex e tutti voi, tiriamo avanti allo
stesso modo, illudendoci, facendo il nostro
viaggio, credendo alle nostre favole.
Bisogna pur vivere.
E adesso, vi aspetto qua.
LA MANO DI
DORIANO GAY
Difficile da credere ma Doriano Gay non
è un prodotto della fantasia di qualche autore di noir o un fantasma
proveniente da antiche leggende popolari. Doriano Gay è vissuto davvero in un
castello del Chianti fino a una decina di anni fa.
Viveva in questo signorile maniero che si erge maestoso all’apice di una
collina che domina chilometri di vallate ricoperte di vigneti. Sua madre era
stata proprietaria di quei terreni fino alla morte; quando il figlio aveva
ereditato, aveva venduto tutto, compreso il castello (tenendo per sé solo un
piccolo appartamento nell’ala più dismessa), per pagare i continui debiti di
gioco.
Il padre era stato un soldato americano di stanza a Camp Darby vicino a
Pisa. Aveva conosciuto la madre di Doriano quando lei era poco più che
maggiorenne, l’aveva messa incinta, si erano sposati e dopo pochi mesi, durante
un’esercitazione militare, per errore una granata lo aveva dilaniato.
Doriano era cresciuto con la madre, manifestando una precoce natura
viziosa, consolidatasi definitivamente dopo aver conseguito la laurea in
psicologia. Finita l’università non aveva fatto altro che giocare in bische
clandestine e casinò, oltre a spendere un patrimonio in alcol, droghe e donne,
spesso escort dal cachet di milioni
di lire a serata.
Nel corso degli anni i debiti si erano accumulati. Quando la madre aveva
scoperto il loro ammontare era praticamente morta di crepacuore. Così, poco
dopo aveva venduto il castello di San Casciano in Val di Pesa a dei trafficoni
russi e i vigneti del circondario a degli imprenditori della zona.
Tra le sue peculiarità Doriano ne aveva una rarissima, forse unica: a
quarantasei anni sembrava un ventenne. Nonostante la vita sregolata che
conduceva, non una ruga solcava il suo volto, fresco e rilassato come quello di
un ragazzino in salute. Questo fatto misterioso destava curiosità e sospetto
tra le fila dei suoi conoscenti. Molti coetanei lo invidiavano non poco.
“Come cazzo fa a mantenersi così, con la vita che fa e le porcherie che
assume?!” si chiedevano. “Avrà mica
venduto l’anima al diavolo?”
È vero, Doriano non invecchiava in viso e nemmeno nel fisico. La sua
libido non era calata di una virgola da quando aveva fatto sesso per la prima
volta a quindici anni con una prostituta, anzi, più passava il tempo più gli
aumentava la voglia insieme alla vigoria amatoria.
Un’altra caratteristica evidente era il guanto che indossava
perennemente sulla mano destra. Era un guanto di seta, nero. Ai curiosi che gli
chiedevano il perché di quel vezzo rispondeva che da piccolo era caduto con la
mano sulle braci roventi del camino; la mano ne era uscita gravemente ustionata
e da allora portava il guanto. Che il guanto nascondesse una mano
mostruosamente deturpata era verità, falsa era la causa che gliela aveva
rovinata.
Sotto quel guanto nero si celava la mano grinzosa e nodosa di un vecchio
ultracentenario. Nemmeno Doriano poteva spiegare quell’anomalia. Non aveva mai
mostrato a nessuno il suo arto rattrappito, che aveva cominciato a invecchiare
da quando una sera di tanti anni prima, giovanissimo, si era seduto alla
scrivania con un foglio e una penna, penna che stringeva proprio la mano
destra.
Come detto non poteva spiegare,
ma Doriano sentiva in un angolo
nascosto della sua anima il perché… Quella sera di anni addietro con una penna
in mano e un foglio sotto agli occhi non aveva firmato un patto con il diavolo,
aveva semplicemente cominciato a scrivere una storia, il suo primo racconto. Da
quel momento il tempo si era come fermato. Doriano Gay era rimasto giovane
d’aspetto, di mente, di spirito e di fisico. Solo la mano che usava per
scrivere era invecchiata a ritmo più che raddoppiato.
Intuito questo potere, Doriano aveva cominciato ad abusarne. Quella
particolare condizione gli procurava alcuni vantaggi – per uno con la sua
indole – tra i quali il poter vivere una “vita spericolata” senza nemmeno
accusare i postumi di una sbronza o dover fare una fermata ai box per
ricaricarsi. Gli bastava aprire un quaderno e scrivere: tornava subito come
nuovo. A parte la mano.
Al gioco aveva iniziato ad accumulare debiti molto prima che la madre
morisse, quando lui aveva trentacinque anni. Li aveva accumulati con gente con
la quale era meglio non scherzare. Quando riusciva ad appianarli, nel giro di
pochi giorni tornava con l’acqua alla gola. Dopo aver venduto tutto quello che
poteva vendere i soldi scarseggiavano. Di andare a lavorare non ci aveva mai
pensato e iniziare a quarantasei anni non lo sfagiolava affatto.
“E se provassi a pubblicare i miei racconti?” si chiese. “Magari faccio
il colpaccio e ridivento ricco!”
Il libro di racconti lo pubblicò e se da un lato non vendette più di
duecento copie ad amici e conoscenti, dall’altro ebbe il vantaggio di farlo
sentire ancor più IMMORTALE.
Una sera il campanello del suo appartamento al castello suonò. Due
loschi energumeni erano alla porta. Senza tanti complimenti entrarono e
legarono Doriano a una sedia.
“Don Mimmo è stanco di aspettare” disse uno dei due. “Tu prometti sempre
di pagare ma non lo fai mai. Don Mimmo l’ultima volta aveva promesso che se non
pagavi ti avrebbe tagliato una mano. Don Mimmo è uomo di parola, uomo d’onore.
Ce li hai i soldi per pagare i tuoi debiti a don Mimmo?”
“La settimana prossima saldo tutto. Prometto.”
Senza aggiungere altre parole uno dei due gorilla liberò dalle corde la
mano destra di Doriano e la mise sul tavolo.
“State scherzando?” domando con voce tremula Doriano. “Ok ok, domani,
domani pago. Ve lo giuro!”
“Mi spiace” disse uno dei due guappi mentre l’altro apriva una valigetta
che si era portato appresso e tirava fuori un machete. “Era la tua ultima
possibilità.”
Detto questo tenne con forza l’avambraccio di Doriano sul tavolo. Tutto
si svolse nel giro di pochi secondi. Il machete troncò di netto la mano
guantata di Doriano, il quale era talmente incredulo per ciò che gli avevano
fatto che nemmeno urlò. Improvvisamente la pelle del suo volto cominciò ad
avvizzire, il corpo a prosciugarsi. I due scagnozzi si guardarono esterrefatti,
il terrore che di solito incutevano negli altri si era impossessato di loro.
Scapparono via a gambe levate.
Il giorno seguente, i carabinieri, avvertiti da non si sa chi, entrando
nell’appartamento di Doriano Gay trovarono uno scheletro legato a una sedia e
sul tavolo la mano destra mozzata appartenuta probabilmente ad un giovane
ragazzo.
A quel tempo mi impedirono di scriverne, soprattutto i dettagli. Ho
seguito il caso come giornalista inviato de “La Nazione” e posso affermare che
la storia di Doriano Gay è assolutamente vera, ma per la pace delle anime
terrestri è meglio credere che sia solo il frutto nato dalla fantasia di uno
scrittore.
LA PARTITA DELLA
VITA
Se avessimo vinto quella partita, per la
prima volta nella sua lunga storia l’Emiliana sarebbe salita nell’Olimpo del
calcio. La serie A. Nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo a inizio
stagione, tutti gli addetti ai lavori, tanto per cambiare, ci vedevano come la
più seria candidata alla retrocessione. Invece partita dopo partita l’Emiliana
scalava la classifica dell’impegnativo campionato cadetto.
Dopo una decina di campionati di serie B disputati con l’acqua alla gola
dall’inizio alla fine, con l’unico
obiettivo di raggiungere la salvezza il più presto possibile, ecco che arriva
il magic moment, ecco che va in scena
la stagione perfetta, dove tutto sembra andare per il verso giusto.
Anche io ero in stato di grazia, il mio campionato era stato strepitoso.
A trentatre anni avevo forse la più grande occasione della mia carriera, una
carriera tutta trascorsa nell’Emiliana, facendo la trafila dalle giovanili alla
prima squadra. Da un paio d’anni indossavo la fascia di capitano pur non avendo
il carisma del leader, ma dopo l’abbandono del veterano – il forte difensore ex
Nazionale Tarcisio Baronchelli – un referendum all’interno dello spogliatoio
voluto da mister Borini mi aveva eletto nuovo capitano. Ne ero fiero. Ormai
erano anni che i giornali, accanto al mio nome, aggiungevano spesso la parola
“bandiera”. Dopo una così lunga militanza potevo considerarmi a tutti gli
effetti la bandiera dell’Emiliana.
Quell’anno avevo persino già segnato 11 reti, il mio record personale,
un ottimo bottino per un’ala destra ormai stagionata che continuava a macinare
chilometri su e giù per la fascia.
Si giocava dunque Emiliana – Bologna, ultima di campionato, con la
formazione ospite già matematicamente promossa da settimane.
Prima del match eravamo ovviamente tutti carichi e concentrati, ma non
avevamo messo in conto che gli avversari avrebbero sputato sangue per metterci
il bastone tra le ruote. Purtroppo durante il match di andata allo stadio
Dall’Ara, da noi vinto 0 a 2 grazie a una doppietta del bomber Segoloni, c’era
stato qualche sfottò di troppo da parte di qualche nostro giocatore nei
confronti degli avversari. I felsinei avevano promesso di farcela pagare cara e
così… eccoci qui… a giocare una partita che sembrava dovessero vincere loro a
tutti i costi.
Noi, anche a causa della tensione, giocammo la peggior partita della
stagione; io non ero mai stato così abulico e statico, mentre tutti e undici in
campo eravamo in balìa del Bologna. Avevo sognato quella partita una vita
intera e adesso non ne azzeccavo una. Mi sembrava di avere le gambe di piombo.
Ma nonostante l’impasse mio e di tutta la squadra, nonostante il Bologna
giocasse con il coltello tra i denti, il risultato non si sbloccava e per noi
c’era ancora speranza.
Al 70° minuto, su cross dalla sinistra dell’oriundo brasiliano
Euripides, ebbi l’occasione per entrare definitivamente nella storia del calcio
italiano e dell’Emiliana in particolare: mi ritrovai la palla praticamente
sulla linea di porta, ero solo, bastava appoggiarla in rete. In quell’istante
tutte le leggi della fisica vennero sovvertite. Andai sicuro sul pallone, già
pronto a esultare, ma la palla che calciai a due centimetri dalla linea colpì la
traversa. Sul ribaltamento di fronte, l’idolo delle folle rossoblu Tranfolanti,
in un micidiale contropiede segnò lo 0 a 1. Ero incredulo; i 25.000 tifosi
assiepati sugli spalti dello stadio Artemio Banfi erano ammutoliti, l’atmosfera
era improvvisamente diventata surreale. Un magone soffocante mi salì alla gola.
Mi ripresi, o almeno cercai di andare avanti…
Cinque minuti dopo l’arbitro fermò il gioco per permettere un cambio. Mi
voltai verso la mia panchina e vidi che un nostro dirigente stava alzando il
cartello con il numero 7, il mio numero!
“Che cazzo fa?!” mi venne spontaneo.
Mister Borini mi stava richiamando in panchina; al mio posto era pronto
a entrare il giovane talento Caccamo, promessa del calcio nostrano.
Avevo commesso molti errori, sentivo che non ero brillante come nelle
gare precedenti, ma ci tenevo troppo a quella partita. Inoltre volevo rimediare
all’errore madornale appena commesso. Guardai il mister e gli feci cenno come
per dire: “Io? Ma sei sicuro?”
Il mister fece di sì con la testa. La mia reazione fu puerile. Purtroppo
ci sono eventi nella vita talmente inaspettati e carichi di emozione che non si
può prevedere come verranno affrontati. Nell’uscire dal campo non diedi la mano
né a Caccamo né al mister, anzi, mi tolsi la maglia e gliela gettai ai piedi.
Lo stadio intero notò la cosa e mi fischiò sonoramente accompagnandomi verso il
tunnel che portava agli spogliatoi. Qui mi sedetti al mio posto sulla panchina,
appoggiando i gomiti alle ginocchia e prendendomi la testa tra le mani. Speravo
con tutto me stesso che i miei compagni ribaltassero il risultato per
dimenticare le cazzate fatte poc’anzi e festeggiare la gioia più grande mai
provata. Non accadde. Quando sentii il triplice fischio dell’arbitro, sembrava
che gli spalti sopra di me fossero vuoti.
I compagni rientrarono avviliti e a quel punto scoppiai a piangere come
un bambino. Chiesi scusa a tutti, ai compagni, al mister, al presidente che
nonostante la delusione aveva trovato lo spirito per venirci a rincuorare.
Per la cronaca in serie A salirono, oltre al Bologna, il Bari e
l’Avellino, che approfittando della nostra sconfitta ci superò ringraziando di
cuore sia noi che il Bologna.
Rimasi all’Emiliana anche la stagione successiva, ma l’anno prima avevo
dato tutto e le batterie si stavano esaurendo; la partita col Bologna poi,
aveva lasciato un segno profondo, un’ombra, un’onta indelebile in me. A parte
la prestazione insufficiente, che poteva capitare a chiunque, il gesto che
avevo fatto alla sostituzione aveva tracciato un solco tra me e i tifosi, che
si erano sentiti traditi dalla loro bandiera. Anche la società, che mi aveva
promesso un ruolo da dirigente una volta smesso di giocare, mi disse che non
era più il caso… Per farmi perdonare non erano bastate le scuse – peraltro
assolutamente sincere – che mi ero premurato di fare a tutti, de visu, sui giornali e per televisione.
Borini mi aveva lasciato la fascia di capitano ma la vecchia bandiera
era ormai ammainata. Quell’anno, brutta copia della squadra che per un pelo non
era stata promossa in serie A, retrocedemmo in serie C.
Venni ceduto alla Brancaleone F.C. in serie D per disputare il mio
ultimo, mediocre campionato. L’Emiliana intanto tornò subito in serie B grazie
ai gol di Caccamo, che mi aveva prontamente sostituito nel cuore dei tifosi e
che presto avrebbe fatto le fortune del Napoli e della Nazionale.
Ho smesso da anni di giocare, adesso lavoro come cassiere in un
supermercato per mettere insieme gli anni per arrivare alla pensione. Ogni tanto
faccio un incubo, sempre lo stesso, che mi tormenta le notti: sogno quella
palla maledetta che colpisce la traversa. Quando succede mi sveglio sudato e
angosciato. Mi alzo dal letto – vuoto dopo che anni fa mia moglie se n’è andata
di casa con nostra figlia piccola – vado in cucina e per calmarmi mi scolo un
bicchiere di Biancosarti. Torno a letto e per riaddormentarmi provo a
immaginare come sarebbe stato il resto della mia vita se in quell’istante la palla da me calciata avesse gonfiato la rete
anziché colpire la traversa.
Sarebbe stata tutta un’altra storia.
Nessun commento:
Posta un commento