giovedì 7 settembre 2017

Racconti della raccolta VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE (parte 4)


COMA ETILICO


“L’ennesimo coglione che oltrepassa il limite, eh! Come andiamo?”
   “La situazione è stazionaria.”
   Li sentivo chiaramente. Non distinguevo le voci perché il tono sembrava identico e asessuato, ma sapevo che la domanda l’aveva posta il medico in visita e la risposta l’aveva data l’infermiera che lo accompagnava.
   Blaterarono qualcosa che non ascoltai riguardo il contenuto della flebo e le iniezioni che dovevano farmi; mi ero estraniato perdendomi in un mondo molto più grande e incredibile di quello reale. Stavo viaggiando per le sterminate praterie del mio cervello.

   Non sapevo come avevo fatto a ridurmi in quello stato. Me lo avevano però ricordato i discorsi dei medici, del personale ospedaliero, dei parenti e degli amici che venivano a trovarmi, discorsi che udivo a loro insaputa.
   Avevamo festeggiato la morte di Tony. Non che fossimo felici che fosse morto, è ovvio, ma era stato lui a pochi giorni dalla fine a dirci che avrebbe voluto una festa per il suo funerale, e non facce tristi e lacrimose.
   Solo io, Orso, Gnagno e Teresa avevamo colto lo spirito (alcolico) della sua richiesta, così ci eravamo trovati al Sirius subito dopo il funerale. Avevamo iniziato a brindare alla memoria dell’amico scomparso alle cinque del pomeriggio e alle tre di notte ci stavamo ancora dando dentro. Il locale era deserto. Mamo, il proprietario, si era unito a noi offrendo una bottiglia di champagne.
   I miei amici erano tutti su di giri ma non avevano bevuto quanto me. Alle tre e un quarto – stando a quanto diceva Teresa a un’infermiera accanto al letto dove giacevo – avevo tracannato tutto d’un fiato l’ultimo bicchiere di rum ed ero collassato.

   Ah come sto bene qui. Spero di rimanerci il più a lungo possibile. Posso essere chi voglio, fare ciò che voglio. Come nei sogni non so come andrà a finire, però la trama in un certo senso la decido io. Anche quando si tratta di incubi.
   In questo momento sono un misto tra Charles Bukowski e Drugo Lebowski. Siedo su uno sgabello al bancone di un bar di periferia, ubriaco fradicio. La barista mi offre un White Russian porgendomi contemporaneamente un libro.
   “Mi faresti un autografo?” dice timida. “Sai, sei il mio scrittore preferito. Ti leggo da anni.”
   “Certo” farfuglio io con la lingua impastata. “Basta che quando finisci il turno vieni a letto con me.”
   “D’accordo.”
   Il viaggio finisce dopo averla scopata a pecorina in una lussuosa suite d’albergo.

   “Ciao Simone, come stai? Se mi senti, ti prego, torna da noi. Ci manchi da morire.”
   È mamma. La voce è monocorde, potrebbe essere chiunque, ma sento che è mamma.
   “Dai che sei forte. Ce la farai.”
   Questo invece è papà.
   Li lascio alle loro piagnucolose speranze e parto per un altro viaggio.
   Stadio Olimpico di Roma, derby Lazio – Roma. Sono il numero 11 della formazione biancoceleste e sto giocando una grande partita. Il pubblico mi osanna. Parte un cross dalla sinistra, arrivo in corsa e impatto il pallone al volo, che va a infilarsi all’incrocio dei pali facendo letteralmente esplodere lo stadio. Esulto mentre vengo sommerso dall’abbraccio dei compagni di squadra.
   La felicità che provo in quel momento, ne sono certo, non l’ha mai raccontata nessuno scrittore al mondo.

   “Quanto cazzo hai bevuto Mone?! Dioscalzo, se volevi battere il record dei record di sbronza ci sei riuscito alla grande.”
   Mi sembra Orso quello che parla. Me lo conferma Gnagno.
   “Hai ragione Orso. Non ho mai visto un essere umano ingurgitare tanto alcol. Tu Mone non sei normale!”
   Basta vi prego, tornate a casa che io devo viaggiare…
   Parto per la Spagna. Sono un torero. Il toro è un uomo nudo con la vagina al posto del pene e due corna lunghe e affilate che mi ricordano quelle di un triceratopo. Mentre ci avviciniamo per sfidarci noto la somiglianza dello strano essere che ho di fronte con il leghista Salvini. Gli mostro il drappo rosso per provocarlo e lui mi carica. Evito agilmente le sue corna e con un movimento repentino lo infilzo tra le chiappe.
   Il triceratopo Salvini cade a terra stecchito ma dal culo cominciano a fuoriuscire tanti piccoli mostriciattoli: un mini Berlusconi, un mini Renzi, un mini Obama, un mini Putin, un mini Assad, eccetera. Se resto nell’arena so di non avere scampo, così scappo via.

   “Mone Mone, quanto ti ho amato! E tu non mi hai mai cagato.”
   Eccola Teresa. Deve essere per forza sola per dire questo. Non sa che posso udirla.
   “Eppure siamo sempre andati così d’accordo. Non puoi negare che tra noi c’era un’empatia rara. Saremmo stati una coppia perfetta se solo ti fossi innamorato almeno un po’ di me. Invece niente, neanche un bacio, se escludiamo quell’unica volta che siamo finiti a letto da ubriachi. Tu ci hai messo mezz’ora a drizzare e una volta drizzato sei venuto dopo tre secondi, ma vabbè… è stato comunque memorabile…”
   “Mi scusi ma deve lasciare la camera.”
   È arrivata l’infermiera e Teresa se ne va. È l’ora delle abluzioni.
   “Ma che bel pistolino che abbiamo qui” la sento dire. È evidente che nella stanza siamo solo io e lei, nessun’altra infermiera o dottore la accompagna. “Se ti riprendi mi sa che te lo vengo a succhiare una sera. Magari ti invito fuori a cena.”
   Aiuto. Vorrei partire per un viaggio ma non ci riesco.
   “Sistemiamo questo catetere adesso… et voilà… finito. Ora vado mio bel patatino, tra un po’ arriva il dottore a visitarti.”
   Silenzio. Se n’è andata, ma non riesco a vivere nessun’altra esperienza. Silenzio e buio nel mio cervello, e forse anche lì fuori nella stanza che mi ospita.
   “Penso proprio che si risveglierà presto. La ripresa è netta.”
   Le parole del doc non mi fanno nessun effetto. Sto bene dove sono, non mi va di tornare nella realtà dei mentecatti.

   Finalmente riparto per un nuovo viaggio. Sono ai nastri di partenza di una maratona. Ho il pettorale numero 144. Lo starter spara e la gara comincia. Non sono sicuro ma credo di essere a New York; i partecipanti sono migliaia, così come migliaia sono gli spettatori che tifano calorosi ed eccitati ai bordi della strada.
   Corro senza pensare di arrivare primo, anche perché sono molto indietro e tra i concorrenti ci sono molti professionisti. Corro per il piacere di correre. Corro godendomi la corsa. Dopo alcune ore di gara mi affianco a un giovane corridore e gli chiedo: “Ehi, ma quanto è lunga questa maratona? Mi sembra che abbiamo abbondantemente superato i 42 chilometri regolamentari…”
   “Come, non lo sai?” mi fa lui. “Vince chi rimane in piedi per ultimo. Chi si ferma muore.”
   Non approfondisco. Conoscevo anch’io le “regole” alla partenza, ma non so perché le avevo dimenticate.
   Dopo si cominciano a vedere i primi morti sulla strada. Più vado avanti più cadaveri ci sono a ostacolare il percorso. In alcuni tratti bisogna calpestarli per proseguire.
   Sembra che la maratona onirica duri da giorni. Ad un tratto mi sento esausto e vorrei fermarmi, ma un tifoso appostato dietro a una siepe mi grida di resistere, che siamo rimasti in due: io e il maratoneta che mi precede di qualche metro. Il tifo si accende. Chi resta in piedi è salvo.
   Lo raggiungo, entrambi stiamo per cadere, la fatica ha da tempo oltrepassato limiti umani. Ma devo resistere. Ecco che il mio avversario superstite vacilla; fa ancora qualche passo e cade. Con un balzello che mi costa le ultime energie evito che mi travolga. Sono salvo.

   Apro gli occhi. Davanti a me c’è mamma che con il suo sorriso di felicità quasi mi abbaglia.
   “Dottore! Dottore! Infermieraaa!” grida uscendo in corridoio.
   Arriva un’infermiera, forse è quella che mi voleva fare un pompino, ma non ne sono certo. Tra l’altro è un vero cesso.
   “Simone mi senti?” chiede.

   Certo che ti sento, penso rimanendo zitto. Chiudo gli occhi. Vorrei ripartire per un viaggio fantastico ma non è più possibile. Ormai sono nella realtà e l’unica cosa certa è che appena sarò di nuovo in piedi avrò una maratona da correre.


LA STANZA MURATA


Quando il dottore disse che gli rimanevano al massimo tre mesi di vita, la prima cosa che fece Alessandro fu riunire i genitori e i fratelli Samuele e Sara per annunciar loro le sue ultime volontà.
   “Lo so che sembra una follia e se ci penso non riesco a dare una spiegazione logica, ma vi prego, quando sarò morto, oltre a spargere le mie ceneri nei luoghi che mi hanno visto crescere, vorrei che faceste murare questa stanza, la mia camera da letto da quando sono nato. Porta e finestra, così che nessuno vi possa più entrare.”
   I famigliari si guardarono senza lasciar trasparire ciò che in realtà pensavano tutti, e cioè: “Boh, una cosa più assurda non poteva chiederla, ma se è questo che vuole vedremo di accontentarlo…”
   Papà Piero tranquillizzò il moribondo dicendogli che lo avrebbe fatto. Erano i primi giorni di maggio del 1994.
   Alessandro spirò nel suo letto il 17 luglio di quell’anno. Esalò l’ultimo respiro proprio nel momento in cui Baggio sbagliava a Pasadena il rigore che decretava il Brasile Campione del Mondo. L’Italia era in lutto.
   Dopo il funerale Piero fece ciò che gi aveva chiesto il figlio. Lui stesso murò la stanza così com’era, con tutto ciò che conteneva: libri e soprammobili sugli scaffali, foto alle pareti, vestiti negli armadi, carte, documenti, diari e scritti vari nei cassetti. Mamma Paola aveva spolverato e rassettato la camera del giovane scomparso – aveva 27 anni ancora da compiere – fino a un momento prima che il marito cominciasse a posare i primi mattoni, rifacendo il letto come se Alessandro dovesse tornare da un momento all’altro e ripetergli quelle parole che se prima non ascoltava neppure, adesso pesavano sul suo cuore di madre come un macigno: “Dai Ma’, lascia stare il letto che tanto stasera lo disfo di nuovo. Che lo rifai a fare?!”
   Per oltre vent’anni la stanza di Alessandro rimase murata.

   Nel novembre del 2015, nella casa dove aveva vissuto Alessandro con i genitori e i fratelli per tanti anni, abitava Mattia con la futura sposa Jessica. Mattia era figlio di Samuele, il fratello maggiore di Alessandro, che viveva anch’esso lì con la moglie Loretta. I genitori Piero e Paola erano morti a un paio d’anni di distanza nei primi anni del Duemila, mentre Sara si era trasferita a Firenze a convivere con la compagna Naike.
   Mattia decise che era ora di abbattere quel muro che impediva ad una stanza della casa di essere sfruttata. Non ci mise molto a convincere il padre che era una stupidaggine tenere murata la camera dello zio morto ormai da “secoli”.
   “E poi babbo” disse per sgombrare il campo dalle ultime titubanze, “visto che io Jessica stiamo per sposarci, avremo bisogno di una camera per i bambini.”
   Samuele telefonò a un amico muratore che a fine novembre eseguì il lavoro, riaprendo la porta e la finestra murate anni addietro.
   Quando Samuele e Mattia entrarono nella stanza preceduti dal muratore, rimasero tutti a bocca aperta. Sembrava che Paola fosse appena passata a pulire. Ma la cosa più strana – tant’è che più tardi si chiesero se non lo avevano sognato – fu quella specie di aurora boreale che videro apparire nel centro della stanza e che si dissolse dopo una decina di secondi dal loro ingresso.
   Nei giorni successivi Mattia pensò di sbarazzarsi di tutta la roba contenuta nella stanza.
   “Babbo, che ne dici di regalare i libri al tuo amico che fa i mercatini e i vestiti alla Caritas?”
   “Buona idea. Però non gettare i diari e i racconti. Lo zio amava molto scrivere e buttarli sarebbe offenderne la memoria. Comunque decidi tu, ci sono già troppe scartoffie in questa casa.”
   Mattia si mise a scartabellare tra le migliaia di fogli sparsi nei cassetti. Lesse qualche racconto.
   “Che cazzate!” commentò prima di mettere tutta quella mole cartacea in un sacco che sarebbe finito nella spazzatura.
   Passò ai diari. Su quelli si soffermò un po’ più a lungo, perché era curioso di leggere del passato della sua famiglia. Lesse saltando in qua e in là per oltre un’ora poi cominciò ad annoiarsi e ritenne che nemmeno i diari meritassero di essere conservati. Gettò nel sacco anche quelli e chiamò mamma Loretta ad aiutarlo a trasportare il tutto nel bidone della spazzatura. Quella notte riapparve per un istante l’aurora ma nessuno la vide.
   Alcuni giorni dopo Mattia cadde in una profonda depressione. Faceva incubi terribili che non ricordava mai nitidamente al risveglio; gli sembrava solo che fossero ambientati nella stanza di Alessandro.
   Incominciò ad avere paura di quella camera. Le volte che metteva il naso al suo interno gli sembrava di vedere lo zio sdraiato sul letto che lo fissava con sguardo demoniaco.
   Passarono i giorni. Mattia era sempre più depresso e terrorizzato. La mattina della Vigilia di Natale, papà Samuele, non vedendo scendere il figlio per il pranzo, lo andò a chiamare nella stanza che condivideva con Jessica. Lo shock lo colpì come un pugno nello stomaco appena entrò. I pezzi del corpo di Jessica ricoprivano il letto matrimoniale. Sangue e budella imbrattavano pareti e pavimento. La testa della ragazza era appoggiata sul comodino.
   Samuele si diresse sconvolto nell’ex stanza del fratello, come attirato da una forza misteriosa. Socchiuse la porta, che era stata montata giorni prima, e un alito gelido lo investì. Prima di vedere il figlio Mattia sdraiato sul letto, senza vita, con le vene tagliate e il sangue che ancora sgorgava, notò un’aurora fascinosa ma sinistra aleggiare nella stanza. 


SESSSO
  
La relazione con Martina è durata circa quattro mesi. Ci eravamo lasciati una settimana prima, di comune accordo, senza che uno o l’altra dicesse “ti lascio”. Ci siamo semplicemente guardati negli occhi dopo una discussione e abbiamo capito entrambi che la nostra storia era finita.
   Troppo diversi. A volte la diversità può essere un collante potentissimo, non nel nostro caso però. Stavamo bene insieme, eravamo pure innamorati, ma io sono io, un tipo solitario, quasi asociale, in un certo senso egoista, pigro, amante dei libri, geloso dei miei spazi nei quali mi rifugio per riflettere, creare, scrivere; sono uno che ama il silenzio ma anche le atmosfere fumose delle osterie di terza categoria e la compagnia di beoni ciarlieri in vena di filosofeggiamenti. Mentre Martina è Martina: trentenne sportiva, dinamica, pragmatica, lavoratrice instancabile, mondana, amante delle feste fighette, dello shopping e del calcio (tifosa sfegatata del Bologna). Roba lontana anni luce dal mio essere.
   Il nostro collante era il sessso, con tre esse di seguito, indispensabile nei rapporti di coppia, anche se non in grado, da solo, di cementarli. Consci di questo sin dalle nostre prime uscite, io e Martina ne abbiamo approfittato per il tempo che ci siamo concessi, perché quando il sesso diventa sessso bisogna darci dentro alla grande. Il sessso è sesso di livello superiore rispetto al normale. Non che facessimo chissà cosa, anzi, il nostro era privo di stranezze, posizioni ricercate o tempi interminabili, ma che bello! Che sintonia! Che orgasmi!
   Gli orgasmi femminili possono essere recitati a volte (beh, anche quelli degli uomini se è per questo) ma quelli di Martina erano sinceri, eccome se lo erano. Quando venivamo insieme era come entrare in un’altra dimensione per qualche minuto, uscire dal tempo e dallo spazio. E quando rientravamo dal viaggio in orbita rimanevamo accoccolati con un pieno di adrenalina che si sarebbe esaurito solo dopo molte ore.
   Come ho detto, una settimana dopo esserci lasciati rividi Martina. È rimasto il nostro ultimo incontro; dopo lei si è messa con un finanziere mentre io ho continuato la mia vita solitaria, cercando conforto nella mia amica birra, nei fratelli libri e in qualche rara compagnia interessante.
   Quell’ultimo incontro ha lasciato il segno, suggellando un rapporto comunque affettuoso e intenso. Posso definire il sessso che facemmo quella sera come il migliore della mia vita.
   Martina mi aveva telefonato nel pomeriggio per sapere come me la passavo.
   “Perché non ci vediamo a quattr’occhi per fare due chiacchiere?” aveva proposto.
   “Perché no?!”
   “Se vuoi venire a casa mia dopo cena sono sola e non ho impegni.”
   Suonai al citofono di casa sua alle 21 e 30. Appena aprì la porta mi saltò addosso soffocando sul nascere il mio “ciao” con un bacio appassionato. Cominciammo a spogliarci lì sull’uscio, in preda a una voglia animalesca. Spargendo vestiti per tutto il corridoio arrivammo in camera.
   Martina aveva un seno che pareva scolpito, non troppo grande, con due capezzoli rosei e tondi, perfetti. Mi ci attaccai e succhiai avidamente il loro turgore, fino a quando con un movimento repentino mi spinse sul letto e cominciò a leccarmi partendo dal collo, per passare ai capezzoli, poi giù all’ombelico, fino al pene che era ormai duro come granito.
   Mi venne sopra e dopo un po’ raggiungemmo il Nirvana, venendo insieme tra gemiti e sospiri. Non avevamo mai raggiunto un simile livello di estasi.
   Parlammo poco o nulla dopo, rimanendo abbracciati sul letto per un’altra decina di minuti, persi nei nostri singoli universi di pace.
   Salutai Martina conscio che sarebbe stata l’ultima volta che avremmo fatto sessso. Perché? Perché era stato il colpo di coda della nostra storia. Di più, di meglio, non potevamo fare, perché per fare sessso ci vuole l’amore. E il nostro amore era finito.


PARANOIE


Ero sull’autobus da soli dieci minuti e già mi sembrava di impazzire. C’era ancora mezz’ora prima di arrivare a Bologna, ma visto il traffico e la pioggia battente calcolavo che ci sarebbe voluto sicuramente un quarto d’ora in più.
   Ero salito sul mezzo alla fermata di Castello d’Argile alle 13.45 per andare alla presentazione di un’antologia culinaria in cui era pubblicata una mia ricetta; avevo partecipato alla selezione per gioco – essendo un cuoco amatoriale – proponendo il mio cavallo di battaglia: lo sformato di gamberi e patate con salsa di peperoni. Ai curatori dell’opera – un gruppo di chef emiliani – era piaciuto, così eccomi diretto nella location designata, il noto ristorante Giada in via Indipendenza, a comprare una copia di Ricette bolognesi dopo aver ascoltato la presentazione ed aver approfittato del buffet.
   Il problema grave stava nel fatto che ero salito sull’autobus sobrio. Solitamente mi bastano tre birre per trasformarmi in un essere umano normale, psicologicamente stabile, emotivamente equilibrato. Senza alcol in corpo sono un ricettacolo di paranoie, una bomba d’ansia.
   La prima para quotidiana a mandarmi a puttane il cervello era scoppiata appunto quando sul bus, alla seconda o terza fermata, un magrebino dalla faccia losca mi si era seduto di fronte.
   “Cazzo! Questo adesso fa una strage come a Parigi” pensavo. “Chissà cos’ha in quello zaino, e guarda che giubbotto largo che ha! Sarà sicuramente imbottito di tritolo. No, no, non pensarci, è solo uno con una brutta faccia, magari è un pezzo di pane come persona… Non guardalo però, che se gli gira male aziona la cintura esplosiva…”
   L’autobus procedeva a rilento.
  “Magari scende alla prossima, dai che scende alla prossima” ripetevo mentalmente come un mantra per rilassarmi.
   Alla prossima scesi io.
   “Che coglione che sono. Se lo racconto a qualcuno mi fanno internare in un ospedale psichiatrico” mi dissi.
   Adesso mi trovavo a una fermata sperduta tra Argelato e San Giorgio di Piano, con l’autobus successivo che sarebbe passato solo dopo un’ora. Non sarei più arrivato in orario per la presentazione, ma non me ne importava più nulla; la mia reazione paranoica al nordafricano mi aveva messo in uno stato di depressione. Per fortuna aveva smesso di piovere e a trecento metri da dove mi trovavo c’era un bar. La mia salvezza. Mi incamminai.
   Entrai al Bar Egidio e salutai il barista. A un tavolino erano seduti due tizi che bevevano caffè; somigliavano ai fratelli Righeira dei tempi d’oro, solo con lo sguardo più incazzoso. Ordinai una Ceres e un biglietto dell’autobus per tornare a Castello d’Argile. Mentre bevevo la birra seduto su un divanetto mi sentivo osservato.
   “Merda, questi sono sicuro due rapinatori” pensavo sentendo crescere l’ansia. “Adesso tirano fuori la berta e ci fanno secchi per due euro.”
   Tempo due minuti e i Righeira salutarono il barista dimostrando di conoscerlo da una vita, dopodiché uscirono nel parcheggio e salirono a bordo di un furgone dell’Enel.
   Il barista cercò di attaccare bottone parlando di una partita di Champion’s League del giorno prima, ma se c’è una cosa che disturba la mia labile psiche al pari di una paranoia è trovarmi di fronte una persona che vuole parlarmi di calcio, di politica o raccontarmi barzellette. Il rischio di sbroccare a causa di un attacco di panico è elevatissimo.
   Mi venne in soccorso una violenta contrazione intestinale, così chiesi se potevo usare gentilmente il bagno. Mentre espletavo le mie funzioni corporee…

PLOFF!

   Uno schizzo mi bagnò le palle.
   “Porca troia! Mi son scordato di tirare l’acqua prima di cagare… Chissà di chi era quel piscio… Che schifo!... Se non mi lavo subito le palle mi andranno in cancrena…”
   Dopo essermi pulito il culo con la carta igienica ed aver risciacquato abbondantemente lo scroto ero tornato a sedere al tavolino. Seccai la Ceres in un sorso e ne ordinai un’altra. In cinque minuti finii anche quella. Aggiunsi un Campari – ché Ceres e Campari sono le bevande alcoliche più ansiolitiche che esistano – e mi permisi persino due battute sul governo con il barista.
   Lo salutai con un “speriamo che domani la Juve vinca e passi il turno” e mi diressi verso la fermata. Questa volta l’autobus era semivuoto e comunque grazie alle “medicine” che avevo assunto al bar ero assolutamente rilassato e a culo col mondo.
   Quella sera avevo un appuntamento con Luisa, un’amica di facebook che però non avevo mai incontrato nella realtà; non ricordavo nemmeno se le avevo chiesto io l’amicizia oppure se lei l’aveva chiesta a me, fatto sta che alcuni giorni prima ci eravamo messi a chiacchierare in chat accordandoci infine per una birra al Sirius.
   Mi presentai al Sirius bello sereno e ubriaco. Bevemmo un paio di birre a testa e finimmo a letto la notte stessa, a casa sua.
   La mattina fui svegliato da un attacco di cacarella. Sbrigai la pratica velocemente e tornai in camera. Luisa dormiva ronfando pesantemente. Mentre mi rivestivo la paranoia mi assalì.
   “Oddio! L’ho fatto senza preservativo e ‘sta troia è sicuramente una di quelle untrici  che infettano gli uomini con l’aids o la sifilide per vendetta…”
   Uscii di casa senza svegliarla e andai al bar più vicino a fare colazione. Ordinai una Ceres rendendomi conto che dovevo andare al più presto a farmi vedere da uno bravo. Ma bravo bravo.


VOLEVO SOLO ESSERE NORMALE


Fossi stato meno sfigato alla nascita, forse me la sarei giocata alla pari con tutti, che era quello che volevo già da bambino, volevo solo essere normale, invece no, il destino – così lo chiamano – mi ha fatto partire con l’handicap.

   Vengo alla luce un freddo giorno di dicembre con un parto cesareo; pare non avessi alcuna voglia di mettere la testa in questo mondo. Quando mia mamma mi vede, portatole da un’infermiera, caccia un urlo che si sente per tutto l’ospedale.
   “Aaaaah mioddiooooooh!”
   Ho un occhio, un occhio del tutto simile ai due che ho in volto, appena sotto l’ombelico.
   I dottori non sanno spiegare una simile malformazione, non avevano mai visto né sentito di casi del genere.
   Mamma e papà non dicono a nessuno di questa cosa. Mi vogliono bene, ma si vergognano di una tale assurda particolarità. Anch’io, non appena il lume della ragione si accende insieme a quello del pudore, comincio a provare imbarazzo. Al mare, in spiaggia, i bambini giocano in costume e fanno il bagno. Io no, io indosso sempre una magliettina e non vado in acqua.
   “Perché non posso?” chiedo ai miei genitori.
   “Perché hai una malattia lì nel pancino” rispondono, “quando sarai guarito potrai fare tutto quello che fanno gli altri.”
   “Quando guarirò?”
   “Presto, speriamo.”
   Crescendo, senza che mi spiegassero nulla, capivo chiuso nella mia solitudine che quella stranezza o unicità mi avrebbe accompagnato per sempre, condizionando ogni mio passo. Ricordo che verso i dieci anni cominciai a odiarlo, l’occhio; giocavo a calcio e quando facevo la doccia con i miei compagni dovevo sempre coprirlo.
   “Cos’hai, perché porti un cerotto lì?” chiedevano.
   “Ho una cicatrice” rispondevo. “Mi hanno operato e devo proteggerla se no fa infezione.”
   Per anni ho raccontato quella balla, ma chissà cosa pensavano gli amici, che da bambini soprattutto, si sa, per quanto amici, possono essere veramente stronzi.
   “C’hai la figa sopra l’uccello, c’hai la figa sopra l’uccello, c’hai la figa sopra l’uccello…” mi canzonavano più tardi, verso i quindici anni.
   Tanto valeva dire la verità, ma non ce la facevo, la vergogna e la paura del giudizio altrui mi bloccavano. Smisi anche di giocare a calcio nonostante mi piacesse tanto.
   Devo precisare che con quell’occhio non vedevo e non vedo tuttora nulla; non ha collegamenti nervosi con il cervello. È lì e basta, aperto, con la palpebra immobile e l’iride dello stesso colore castano chiaro dei miei occhi normali. La pupilla però si allarga o si restringe a seconda della luce che la investe. Non so come spiegarlo: pur non vedendoci, con quell’occhio sento. Percepisco cose del mondo circostante che non sono né visibili, né udibili, né tangibili. Cose, appunto, inspiegabili.
   L’occhio ha condizionato pesantemente tutta la mia infanzia, l’adolescenza e di conseguenza, posso tranquillamente affermarlo, tutta la mia vita adulta. Il mio carattere introverso e spiccatamente asociale deriva in parte dall’occhio. Introversione e asocialità possono non essere grossi difetti (in certi casi possono addirittura essere considerati pregi) ma ero anche fragile e ogni piccolo insuccesso – dal prendere un brutto voto a scuola allo sbagliare un gol facile in partita – mi addolorava profondamente facendomi sentire un incapace. Più o meno inconsciamente incolpavo l’occhio.
   Ebbi la mia prima esperienza sessuale tardi, a ventun’anni, con una ragazza che frequentava il mio gruppo di amici (benché fondamentalmente asociale, ho avuto una vita sociale abbastanza normale), si chiamava Mirka ed era molo bella anche se un po’ scialba di carattere. Fu una prima volta traumatica: avevo fasciato l’occhio dicendole che mi avevano tolto una cisti, ma avevo comunque un’ansia esagerata e l’impaccio era totale. Riuscii ad avere un’erezione dopo molti minuti, minuti che mi parvero secoli, ma una volta entratole dentro fu veramente breve. Per un po’ mi sentii depresso dopo quel giorno.
   Per il resto non ho avuto una vita sessuale particolarmente brillante, ma nemmeno così triste. L’occhio condizionava pesantemente anche quella sfera dell’esistenza. Occasioni per mettermi insieme a delle ragazze ne ho avute molte, solo che non me la sentivo di rivelare il mio “segreto” e naturalmente troncavo la relazione dopo aver scopato qualche volta con grande appagamento (questo lo devo immodestamente ammettere!) di entrambi.
   Una volta mi sono anche innamorato, anzi, ci siamo innamorati; si chiamava Yara, mora, piccola ma perfetta nelle forme, e soprattutto acuta e simpatica. La lasciai in lacrime con una scusa che nemmeno ricordo dopo qualche settimana.
   Odiavo l’occhio. L’occhio mi teneva in catene. O ero io a voler stare in catene? A volte osservandolo me lo chiedevo.
   Verso i venticinque anni cominciai a bere pesantemente e a drogarmi con tutto quello che mi capitava sotto mano, dagli spinelli alla cocaina, dall’ecstasy alle amfetamine. A volte mi sembrava, quando ero in fattanza, che l’occhio si “spegnesse”. Altre volte invece mi sembrava “captasse” molto più intensamente.
   Una sera che ero fatto marcio decisi che mi sarei cavato quell’occhio maledetto. Da quando ero nato i dottori dicevano che era meglio non asportarlo perché non potevano prevedere le conseguenze. Io delle conseguenze me ne sbattevo. Presi un cacciavite e iniziai a tormentarlo deciso a sbarazzarmene una volta per tutte, ma appena spinsi la punta al centro della pupilla vidi come un potentissimo bagliore bianco e svenni.
   Quando rinvenni l’occhio era chiuso. La palpebra che era sempre stata aperta, immobile, ora copriva il bulbo oculare e una lacrima di sangue scendeva verso i peli del pube. Provavo un dolore inenarrabile. Sdraiato per terra in quel momento pensai al suicidio, l’unica via per smettere di soffrire fisicamente e non solo. Presi un mix di Valium, Aulin e Tachipirina e fregandomene delle possibili conseguenze mi addormentai. Partii per un viaggio onirico infernale. Feci sogni allucinanti, incubi dai quali mi svegliai – non so dire quanto tempo dopo – sudato e ansimante.
   Guardai l’occhio. Era aperto e non sanguinava più. Non sapevo se avevo sognato di aver cercato di cavarlo oppure ci avevo provato davvero. Non riconoscevo più la realtà dalla fantasia.
   Poco tempo dopo quel fatto mi licenziarono dalla ditta di giardinaggio per la quale lavoravo. Anche se il capo era mio zio, non poteva più tollerare le assenze che facevo per lo sballo della notte precedente o il presentarmi al lavoro ubriaco. Almeno così, a casa, che condividevo con mamma e papà, senza entrate economiche smisi di drogarmi e di bere; o meglio, smisi di drogarmi e limitai il bere. Ma soprattutto, con il tempo a mia disposizione mi misi a scrivere… Quando scrivevo l’occhio pulsava, non era mai successo. Cosa davvero strana: andava al ritmo dei battiti del cuore. La cosa più “strana” però era che quando scrivevo stavo bene, ero quasi felice.
   Con il passare degli anni capii che l’occhio era una parte essenziale (vitale!) di me. Era la porta che si apriva tra il sogno e la realtà, l’anima e il corpo, l’aldiqua e l’aldilà, la vita e la morte, il paradiso e l’inferno…
   Ho continuato a scrivere, cercando di tradurre sulla carta tutto ciò che l’occhio mi faceva sentire, che mi suggeriva, che mi ispirava. Ogni tanto trovavo qualche lavoretto a tempo determinato per rimpinguare un po’ le finanze (ho fatto il lavapiatti, il cameriere, il benzinaio, lo spazzino, il postino, il babbo natale fuori dai supermercati…) ma doveva essere un tempo determinato davvero beve perché poi l’occhio protestava che stavo perdendo tempo… Dovevo scrivere!
   Agli occhi della gente che mi conosce sono sempre sembrato una persona strana – figuriamoci a quelli di chi non mi conosce! – ma costoro non hanno il terzo occhio. Non sanno cosa voglia dire portarselo attaccato al fisico e all’anima dalla nascita.
   Poco tempo fa (ah quante volte cito questo fantasma beffardo di nome Tempo!) ho conosciuto una ragazza. Stavo attraversando uno di quei periodi di down necessari all’occhio per ricaricarsi, ché l’occhio è anche una specie batteria, di presa di corrente. Ero al Sirius e Laura si è seduta al bancone di fianco a me.
   “Posso offrirti da bere?” ha detto.
   “Certamente” ho risposto interrompendo le mie elucubrazioni pessimistiche. “Ho appena finito la terza birra e stavo giusto pensando di passare al rum.”
   “Due rum!” ha ordinato senza esitare Laura al barista.
   Abbiamo così iniziato a conoscerci. L’occhio mi “diceva” che quella ragazza era diversa e potevo fidarmi.
   Laura non era una gran bellezza, rientrava in un’ipotetica media: capelli castani ricci non troppo lunghi, occhi verdognoli, 1 e 60 circa di altezza, magra, pallida. Nei giorni seguenti a quel primo incontro ci siamo rivisti. Dopo un paio di settimane abbiamo fatto l’amore e ho scoperto di essere innamorato.
  La prima volta, per giustificare il cerotto sull’occhio, avevo inventato la solita scusa dell’operazione, ma sapevo che non potevo continuare con quelle balle. Ogni volta che provavo un orgasmo insieme a Laura, l’occhio vibrava.
   Lei era molto coinvolta e la nostra frequentazione è diventata assidua. Una sera, inevitabilmente, è successo.
   “Dimmi la verità, cosa nascondi sotto quel cerotto?”
   A quella domanda ho cominciato a tremare. Dovevo dirglielo? Ero a un bivio: se avessi continuato a mentire l’avrei persa presto e sarei rimasto un uomo misero e solo per il resto della mia vita. Sì, dovevo dirglielo. E così per la prima volta in vita mia ho mostrato l’occhio a una persona che non fosse mio padre o mia madre.
   Mentre lo facevo pensavo che non mi importava nulla della reazione che avrebbe avuto. Lei non si spaventò, parve anzi molto curiosa.
   “Raccontami” mi esortò.
   Così le ho raccontato la mia storia e più la raccontavo più mi sembrava di esistere, di essere unico, di essere importante almeno per qualcuno. Un po’ come quando scrivevo. Lei intanto mi osservava con una luce nuova negli occhi, che non riuscivo a interpretare. Finita la storia ho iniziato a piangere come se si fosse rotto qualcosa in me, come se una diga che arginava un mare di sentimenti si fosse sgretolata.
   “Fossi stato meno sfigato alla nascita, forse me la sarei giocata alla pari con tutti, che era quello che volevo già da bambino, volevo solo essere normale, invece no, il destino – così lo chiamano – mi ha fatto partire con l’handicap” ho sussurrato una volta ripresomi.
   “Tu non puoi essere normale, perché sei speciale” è intervenuta Laura. “È l’occhio a renderti tale, non l’hai ancora capito?”
   Mi carezzava con dolcezza i capelli arruffati.
   “Pensi esistano altre persone che hanno il terzo occhio?” ho chiesto.
   “Ma certo, cosa credi, di essere unico?”
   “No, no certo che no…”
   “Molti lo hanno all’interno, sul cuore per esempio. Non si vede ma c’è. Fortunatamente ne esistono altre di persone così.”
   “Magari lo avessi avuto io sul cuore! Non mi sarei sentito un mostro per tutta la vita.”
   “Credi sarebbe cambiato molto?”
   “Mah, chissà, sicuramente non sarei stato IO…”
   “Appunto. Discorso inutile. Visto che sei TU, segui la strada che solo il TUO occhio vede… Comunque, nascosto o no, tutti quelli che lo posseggono sono passati prima per l’inferno. Qualcuno per sua fortuna ha reso la sofferenza una grande opportunità, e forse è anche riuscito a vedere la Verità Suprema. Mi segui?”
   “Sì, credo di sì. Converrai però che avere l’occhio sotto l’ombelico è più limitante…”
   “Mah. Immagino che se un alieno con sei gambe e cinque teste camminasse per le nostre piazze si sentirebbe molto osservato, ma se fosse consapevole di chi è, se ne fregherebbe, anzi, consapevole del suo essere superiore – e ci vuole poco ad essere superiori al genere umano – andrebbe orgoglioso della sua diversità. Sii orgoglioso di chi sei.”
   “Non è facile.”
   “Nessuno dice che è facile. Per qualcuno è molto più difficile. Pensa per esempio a chi ha l’occhio in fronte, o su una guancia, o sul mento…”
   “Esiste qualcuno che ha l’occhio in fronte, o su una guancia, o sul mento?”
   “Non lo so, ma uso l’occhio come metafora per dire che c’è gente mooolto più “sfortunata” di te, gente senza gambe o braccia, gente paralizzata, gente senza naso, ustionata, deturpata… Ognuno ha il suo occhio e solo chi sfrutta le sue potenzialità può vivere una vita illuminata. Si chiama resilienza. Pensa a chi pagherebbe milioni per averlo dove lo hai tu…”
   “Non credo esistano dei pazzi simili.”
   “Pensa per esempio a chi ha perso un figlio. Pensa a un povero padre che riceve una telefonata in cui lo informano che la moglie e i due figli piccoli sono morti in un incidente.”
   “Fatico a seguirti.”
   “Eppure è così semplice. Per te è stata una tragedia avere un occhio nella pancia dalla nascita; ci sono persone che se lo trovano di punto in bianco nel cervello e devono affrontare tragedie immani. L’occhio diventa un tumore a quel punto, può uccidere. Oppure dare la forza. È impensabile superare certi dolori senza l’occhio. E tu ti lamenti!  Se un uomo senza le gambe può volare o se un uomo che perde un figlio può tornare a vivere, puoi farcela anche tu.”
   Abbiamo rifatto l’amore. Dopo, completamente nudo accanto a Laura, ho provato la sensazione di rinascere.
   “Sorridi alla vita e spargi la luce che proviene da qui” ha detto Laura carezzandomi il ventre intorno all’occhio. “Tu che hai questo raro dono, guarda oltre. Vai oltre.”
   
  
   


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